Editoriale

Bolo
l’imbarazzo della scelta

 Fu un banchetto con tutti i crismi. Ogni minuzia venne calcolata in modo ineccepibile, senza il minimo risparmio di cura e dedizione. Precisione: una filosofia, attenzione al dettaglio: sempre, approssimazione: zero.
Schierati sui tavoli, quattrocento posate in totale (duecentoquaranta forchette, centosessanta coltelli, ottanta cucchiaini), duecentoquaranta bicchieri (ottanta flute, ottanta coppe di cristallo, ottanta da acqua), ottanta tovaglioli in puro lino, trentasei composizioni floreali.
Una volta predisposto il banchetto, il ristorante sprofondò in un silenzio ingiallito dalle lampade e dalle illuminazioni studiate per suggerire un’atmosfera calda e famigliare. I camerieri attesero in silenzio con le mani dietro la schiena. Il cuoco si concesse (di nascosto) una sigaretta sulla porta che dava sul retro del locale.

Qualcuno l’avrebbe potuta ironicamente definire “la quiete prima della tempesta”, se soltanto non si fosse trattato di incunearsi per altre quattro ore fra tavolate di commensali ubriachi.

Giunsero così in leggero e chiassoso ritardo, fra urla canzonatorie e auto strombazzanti.
Presero posto a fatica, lamentandosi sottovoce per la discutibile disposizione degli invitati. Quando l’ultimo parente invalido fu accomodato, ecco sfuriare il banchetto.
Fecero strada gli antipasti: carpacci, involtini, mousse al cucchiaio, tortini fumanti, insalatine, spiedini vegani, zuppe fredde, coppe di avocado e salmone (rinfrescante, a parer della sposa), crostoni, crocchette di patate, mini hamburger, salse di rafano e formaggi fusi.
Una guerra lampo negli stomaci dei partecipanti già sufficiente a risolvere la disputa.  Ma quelle non erano semplici schermaglie, era un matrimonio, e la vera battaglia doveva ancora impazzare.
E allora i primi: tagliatelle caserecce, lasagne, ravioli fatti in casa, sughi di cinghiale, burro sfrigolante, erbe aromatiche, ripieni esondanti, formaggi grattugiati, soffritti, piatti rileccati da soffici molliche di pane.
Trasportando i vassoi a mezza spalla, i camerieri venivano braccati con ampi cenni delle braccia per dispensare bis, ricette, rassicurazioni anti-allergiche.
Tutto sommato gli invitati stipavano gli apparati digerenti a buon ritmo, un modo come un altro per rifarsi di ciò che la lista nozze si era ingurgitata alla vigilia.
Possibile che nessuno avesse pensato alle seconde portate? Al cervo, al roast beef, alla tagliata? E neppure alle patate al forno, alle insalate, ai pomodori gratinati e ai finocchi grondanti besciamella? Evidentemente no.
Le mascelle iniziarono ad allentarsi, così come i buchi nelle cinture. Lo sguardo dei più anziani si fece vitreo, assente. I bambini giocavano sotto i tavoli e rifiutavano con smorfie disgustate le forchette protese dai genitori.
Con la rapidità di un batter di ciglia, le portate iniziarono a essere accolte con mormorii contrariati e singulti sempre meno controllabili.
Tutto ciò che era stato odorato, assaporato, bramato, adesso diventava repellente.
Si deglutiva a fatica, il cibo veniva trasportato alla bocca tremolando e una volta lì sapeva di già masticato.
Quando gli ultimi vassoi vennero riportati in cucina intonsi, la folla plaudì silenziosamente.
Gli ultimi canti, le ultime fette di torta smozzicate e abbandonate chissà dove. Gli amari e i digestivi, a volontà. Poi via, a casa, alla vita di tutti i giorni, in attesa del prossimo banchetto.
Restituiti alla quiete, i camerieri raccoglievano gli scarti gettandoli in grossi secchi dell’immondizia. Porzioni intonse e ossa sputate piombavano nella stessa gola buia del disgusto compostabile.
L’eccesso occultato, ripulito, trascinato a forza lontano dalla vista dei più sensibili.

Dei festeggiamenti restavano soltanto grossi sacchi portati a spalla da camerieri ormai in borghese.

È notte, nessuno in giro qua sopra. Nulla è fuori posto. Nessuna sirena a prometter burrasca, nessun topo barcollante libero di insozzare la strada, nessun ubriaco iracondo a fender l’aria coi suoi cocci spuntati.
Soltanto oggetti immobili in attesa del risveglio della città. Adesso, quando l’ultimo cameriere ha infilato la via di casa, L’Inquieto può uscire dal sottoscala.
È ora di banchettare in questo nuovo mondo, in questo vicolo per poveri benestanti.
Punta dritto ai cassonetti. Ne rovescia uno, due, tutti e tre. Gli avanzi rotolanti si offrono sul cemento senza pudore.
L’Inquieto consuma lì il suo limpido buffet. Inserisce in bocca i rifiuti di altre vite. Spezzetta, frantuma, sminuzza, impasta, trangugia.
Continuerà a incorporare provviste fino a quando l’ultimo succo gastrico non si sarà dissipato. Fino a quando non avrà compreso la vergogna dell’abbondanza. Fino a quando la fame non avrà azzannato le strade pasciute di questo nuovo mondo.
 L’Inquieto

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