Gero, l’amico
Non so che dire… Ugo era un amico. Ma no, non so come dirlo… mi raccontava tante cose, e tante ne abbiamo fatte. Mai cattive, però… era buono, Ugo…
C’era quella volta che si era fermato per togliere un rospo dalla strada… quattro frecce all’ape, freno a mano e tutto… e dall’altra arrivavo io, in macchina, e m’aveva fatto segno di aspettare, e si era messo dietro al rospo, a fargli dai dai! …e gli zompettava vicino per farlo muovere e il rospo era saltato nell’erba, e lui mi aveva ringraziato alzando una mano, io avevo sfareggiato… poi eravamo partiti, uno su, l’altro giù…
O quella volta… eravamo nell’orto, il suo, aveva appena smesso di piovere… bestemmiando duro aveva raccolto un sacchetto di lumache dalla lattuga: “Mi hanno già mangiato il basilico!”, diceva, e girava con ’sto sacco di plastica… lo scuoteva, me lo apriva sotto il naso per farmi vedere… allora voleva farle alla parigina, e già era lì che diceva: “Il burro, ce l’ho, il prezzemolo, eccolo lì, l’aglio è là, viene un sughetto che, ti dico, una roba!”
Io avevo chiesto se sapeva come andavano cucinate e lui: “Come si cuociono, no, non lo so, perché come si cuociono?”…E gli dico che vanno cotte vive… le butti nell’acqua bollente ancora vive, le ammazzi così… e allora aveva guardato nel sacchetto, ce n’erano una cinquantina, quattro o cinque volevano venire fuori… tre piccoline, e la terza aveva la quarta piccolissima sul guscio, forse madre e figlia non so… e aveva tirato una mezza bestemmia, ma fiacca, le aveva buttate nella scarpata: “Ci pensano poi i ricci”, aveva detto…
O quell’altra volta che alla festa non ricordavo niente, e lui mi aveva raccontato, che ero arrivato con una trombetta di carnevale in bocca, e tutta la sera ci avevo soffiato dentro… “Ma piano, senza dare fastidio”, aveva detto… che se non sapevi dov’ero ti bastava seguire il fischio… e alla fine mi ero addormentato sulla panca, trombetta in bocca… e russavo e fischiavo… “Certo che non ti svegli nemmeno con le bombe!” m’aveva detto… e l’unica volta che mi ero tolto la trombetta di bocca, era per convincere Germano ad andare a puttane, ma Germano aveva tredici anni… allora diceva Ugo che ero andato a chiedere il permesso alla madre, di Germano: “Piera, posso portarlo a puttane? Pago io!” diceva che avevo detto… e tutti ridevano, e Piera: “Ma no, ma no, è piccolo! Non si va a donnine, non andare neanche tu!” …e diceva che Germano aveva detto: “Gero, io ho la ragazza!” e diceva che avevo detto: “E bèn? Io sono sposato!”, e era quel giorno che mi avevano ritirato la patente, poi m’è toccato andare a piedi per non so quanto, e su e giù a piedi, e le macchine andavano su e non mi caricavano, era passato Ugo, e subito non mi aveva caricato che aveva l’ape pieno di roba, anche davanti, poi era tornato indietro e mi aveva caricato, e io ero ciucco, e Ugo diceva che avevo detto: “Guarda Ugo, c’è certi stronzi! È appena passato uno con l’Ape come il tuo, si è mica fermato!” …mi ha tanto aiutato, tanto…
O quella volta che stava caricando letame nella carretta, e intanto che caricava, masticava un pezzo di resina…sai il melo, quando fa le bolle, lui le prendeva se le cacciava in bocca e partiva a ruminarle… solo che gli aveva fatto presa nella dentiera, e gli era schioccata via dritta nel letame, coi denti bianchi che li vedevi lì, tra i vermi rossi che attorcigliavano… e il nero del letame che sembra caffè… Lui aveva preso su, dato una passata sulla gamba, e dentro di nuovo in bocca…Mi aveva guardato: “Dieci mesi, sto letame qua, mica niente.”…
E quando andavamo in ape, che eravamo bocia, e lui mi diceva… mi faceva vedere quello che non vedevo, tutto mi faceva vedere, lui vedeva e sentiva tutto… e quando diceva lui sembrava bella, la cosa, anche le cose normali, l’asfalto, che diceva: “Guarda ’sta salita, che grani grossi ha!” …o: “Quanto mi piace la farina che fanno le castagne schiacciate” …poi c’era una macchina che sbucava dalla curva e viene giù come se ha rotto i freni, e ne fa rimbalzare una contro il guardrail, che suona, e lui: “È passato Fra Martino!”…ma non mi lasciava a piedi, mai, apriva la portiera, si storceva di lato, ci schiacciavamo nei finestrini, uno di qua, l’altro di là, sempre con ’ste camicie blu che sapevano di cantina e cipolle… “L’ape va come uno che cammina veloce.”, diceva… e mi ha raccontato che una volta era notte, venivo su dal bar, e lui anche stava tornando su, ma già portava la sua donna, e non aveva posto, e io ero montato dietro, e mi ero addormentato e quando eravamo su non mi svegliavo: “Guarda ti ho tirato i capelli, sgnaccato le balle, niente, non ti svegliavi!” mi aveva detto… e quando era mattina, c’era il sole, ero sveglio nel cassone dell’ape, con tre coperte addosso e il cuscino dietro la testa… buoni come lui non ne fanno più…
E quando eravamo dentro a fare due chiacchiere alla stufa, e mi diceva che aveva il cinghiale che gli girava il campo, e poi mi fa di stare zitto, che sente qualcosa… e esce… e c’è il cinghiale lì che mangia nell’orto… e lui a urlargli dietro, e il cinghiale scappa via, ma poi torna… e lui ancora che urla… e il cinghiale ancora che scappa, ma torna… allora Ugo prende una pietra e gliela butta… e il cinghiale si arrabbia e lo punta deciso… e lui invece di scappare, prende su la vanga e gliela schianta nella testa che ha spaccato il manico…e il cinghiale crolla a terra…e poi piangeva che non voleva ammazzarlo… e arriva la forestale e Ugo gli fa: “Ma chi se lo mangia, adesso?”…
Non so… non so che altro dire: era mio amico.

Ambrogio, l’editore
Mi guardo
la legna nel cesto.
Vedere se trovo
un vermetto
da dare al gatto.

La poesia si intitola Piove, è tratta dalla silloge Bàite di Ugo Caillou, allevatore, eremita, prima scultore poi poeta, valdostano. Ho voluto cominciare questa commemorazione con una sua poesia perché, secondo me, che l’ho conosciuto solo tramite scambi epistolari, è attraverso i versi, che Caillou esprime sé al meglio. È grazie a loro, che si può scavare nel vero io dell’autore.
Cercherò ora di attenermi al significato, simbolico e non, dei testi, per evitare la noia che potrebbe derivare da un’analisi lessicale, approfondita o meno, inutile, visto il momento.
Caillou, ricordiamolo, è nato a casa sua, in cucina, uno degli ultimi parti casalinghi. Il padre ha portato il materasso vicino alla stufa, ha steso delle lenzuola pulite, è arrivata dal paese una vecchia levatrice, nasce così, come scritto nella sua prima epistole, nella quale tentava di raccontarsi per farmi capire chi era fin da subito, e dove sarebbe andata a parare la sua poetica.
Caillou, forse, è il primo a essersi accorto che la parlata della gente di montagna, abituata a lavorare in silenzio, a contatto solo con le bestie, si avvicina molto a un linguaggio espressamente poetico, e, nella sua assenza di parole, e, nella sua aridità. Infatti, in svariati brani, si ha l’impressione che il suo lavoro non sia stato altro che trascrizione. Ovvero, trascrivere le parole così come venivano pronunciate.
Nella sua poetica, Caillou imprime la rabbia e la solitudine della vita aspramente montana. La vita d’alpeggio, la durezza della stalla, la grande solitudine.
Caillou, nei brani, canta la ricerca all’eremitismo. Quindi si può dire che sotto sotto, la solitudine nella quale si immerge, e della quale ha bisogno, è un’arma a doppio taglio, perché la condizione che gli permette di creare è la stessa che lo fa soffrire. Niente di nuovo: si può dire che Caillou è un artista a tutto tondo.
Ma torniamo alla poesia, a Piove: è evidente, come la grande umanità della persona traspaia da questi cinque versi. Ci fa, gentilmente, entrare in casa con lui, innanzitutto, e sempre con lui, scaviamo tra i tronchetti del cesto, in cerca di cibo per il gatto, che, data la condizione climatica avversa è impossibilitato a uscire.
Siamo evidentemente in stallo: non c’è nulla da fare, è un raro momento di ozio, come decide di passarlo l’autore? Dandosi. In questo caso al gatto. Tuffando una ricerca, un regalo prezioso, riconoscenza per la compagnia, le fusa, il caldo tepore accanto ai piedi durante le fredde notti invernali, quando la terza coperta di lana è appena sufficiente.
Ma andiamo avanti, non voglio dilungarmi, passiamo a un’altra poesia, come molti di voi sapranno, l’ambiente del Caillou, e di conseguenza la sua scelta di ambientazione poetica, versava nella natura, con un ritorno di poesie a tema prevalentemente agro-pastorale, e di seguito voglio leggere per l’appunto, visto il tema a lui caro, Quando la vazza si arrabbia:

La mucca gira la testa
qui e lì,
e muggiva.
Mi faccio sotto,
metto il secchio, tiravo.
La mucca,
gli occhi così,
muggiva.
Scalciava la merda
nel muro.
Pisciava,
tirava un pèt.

Non c’è bisogno di spiegazioni, la grande sofferenza trasuda dalle parole: l’animale, evidentemente infuriato per qualche motivo, soffre al punto di non acconsentire alla mungitura, e il Caillou, soffre di conseguenza della sua sofferenza, ma nello stesso tempo, sa, che se non verrà tirato, il latte, peggiorerà la sofferenza dell’animale. Quindi, a scapito di tutte queste sofferenze, si mette di buona lena, e appronta una efficace evacuazione della mammella. Tutto è giocato sulla consapevolezza, come un circolo vizioso nel quale è difficile entrare, e una volta dentro, è difficile uscire. L’animale soffre, e sa di far soffrire l’uomo, soffrendo, e l’uomo che soffre, sa che dovrà, per mitigare la sofferenza dell’animale, farlo soffrire ulteriormente, e l’animale sa che lui sa che l’animale sa, ma lui, sapendo che l’animale sa della sua consapevolezza, sa anche che dovrà andare avanti, per uscirne, ma nonostante tutta questa sapienza, ci tiene a dimostrare il suo disagio, costellando di feci le pareti della stanza, orinando copiosamente sui piedi dell’allevatore, spetazzando disappunto come una mongolfiera bucata. Grande è l’empatia che aleggia in questi versi, e sottile, ma da cogliere sicuramente. Proseguirei, per andare a concludere, con un terzo brano, dal titolo Consiglio:

Con la neve,
non puoi mica,
con la neve
andar giù per i stradini.
Devi andare nel
stradone
a passettini.

Il titolo, non dice già tutto, su chi era ed è stato Ugo Caillou? Certo. Era, è stato e rimarrà per sempre, una persona che amava consigliare, senza imporsi, e non disdegnava ricevere consigli. Perché se sei in quella condizione mentale da capire che è meglio dare un consiglio, che un ordine, che imporre, di solito sei anche in grado di accogliere i consigli altrui. Poi, direi che questi versi, come in tutte le altre poesie del Caillou, sono basati su verità empiriche, verità di qualcuno che ha provato, e a furia di ematomi sul sedere, ha capito che non sempre conviene scegliere la strada più breve, a volte conviene andare dove più si riesce, o meglio, è giusto rischiare nella propria vita, ma sempre con coscienza, e senno di ora, non di poi, e mai per azzardo, a meno che non lo impongano le situazioni. E qui, direi che la saggezza che traspare, è quella del dolore: si potrebbe parlare di logica da caduta, o, esemplificando al massimo, come amava ed era solito fare anche lui, questa è la summa della ragione del culo ammaccato. E potrei andare avanti, ma lascio la parola a chi ne sa più di me, sulla persona: io ho conosciuto purtroppo solo il poeta, ma ne sono comunque grato. Ed è con le sue parole, che ho voluto dirgli addio.

Bruna, la vicina
Ugo è stato il mio grande amore. E ce l’avevo vicino, a due passi da casa. Ma non mi voleva. Ci ho provato tanto, a farmi volere bene, ma niente. Era bello, bellissimo. Quegli occhi che ti guardavano, come ti guardavano. Dritti. Faticavo a starci dentro, a quegli occhi. Diventavo rossa, e me lo diceva, e non capiva. “Bruna, sei sempre rossa, stai mica male?”, diceva, perché anche se non mi voleva, si preoccupava.
Si preoccupava di tutti, Ugo. Solo di lui, non si preoccupava. Quando stava male, non prendeva medicine. Metteva un maglione in più, e via. Aveva le mani storte e sempre con qualche macchia, sembravano rubinetti vecchi, le dita, i giunti. Ma sempre gentili, con le bestie, e col gatto, che gli voleva bene, il gatto. Anche il cane, quando ancora c’era, lo adoravano, le bestie, e anche io. Ho sempre avuto facile adorare Ugo. Anche me, che non mi sopportava, lo sapevo bene che non mi sopportava. Lo sapevo. Adesso mi viene da piangere, ma devo dirlo: non mi sopportava. È che io insistevo, non mollavo. Mi piaceva, cosa dovevo fare! Ma non davo fastidio eh, andavo su da lui, una due volte al mese, massimo. Forse di più, ma non stavo tanto. E lo vedevi con le vacche, come le carezzava, e si preoccupava, e solo il migliore fieno, e sempre la stalla pulita, che ti aveva anche fatto fare le pareti, no Gero? Non ti aveva fatto rifare la stalla? Eh. Infatti. E in casa sua, non c’era mica quella luce. In casa sua, sempre buio, le finestre chiuse, e la stufa accesa bassa, sempre. Un poco di legna ma poca, dentro. E quando ho visto che il camino non fumava più sono andata a vedere, ma niente, non c’era. E c’era la casa aperta, ma lui no. E mi sembrava che qualcosa non andava. E ho iniziato a cercare, e ho trovato i denti nel lavandino, nel bicchiere con l’acqua. E ho trovato il foglio sul tavolo, in cucina. E non so per chi era l’addio, ma era un addio, solo quello: addio. E sono corsa fuori, a chiamare forte, ma niente. E hanno trovato l’ape, al ponte. Lo sportello spalancato.
Che glielo avevo detto, di non prenderle più, le vazze. Che c’era qualcosa che non andava, già gli erano morte tutte una volta. E si era messo a scolpire, e andava bene come scultore. Ma le vazze erano il suo amore, gli animali. Quello vero, non quella là, non c’è neanche oggi, neanche è venuta. Si erano lasciati io ero contenta, così contenta guarda mi vien da piangere, adesso passa, passa.
E neanche è venuta maledu, ah c’è? Ma non sei te! No non sei! Era grassa l’altra, te sei, ah. Ah. Bè, comunque era bellissimo, anche se poi ti ha voluto a te! La bocca, sempre che rideva a mezzo, con quel testone pelato che si vergognava, di non averci i capelli, poi ti aveva conosciuto a te, e non si vergognava più, bè, per quello brava: stava meglio senza parrucchino. Anche la testa, era liscia come le caraffe pulite che brillano, e io la guardavo, la testa, piena di sudore, quando era fuori a girare la terra, e se credevi che era dura e spessa, quella pelle, non sembrava, a vederla così, lucida. Nemmeno la faccia, che era tutta una crepa, e storta da un lato, era più bella con quel mezzo sorriso. Era come un sole, quel sorriso, come un sole. Anche se i denti non erano suoi, ogni tanto li toglieva per sputare bene, ci passava il fazzoletto, o nella manica, o nei pantaloni, e li rimetteva. Come ha fatto a volerti a te, non lo so, che arrivavi da lontano. Forse era quello, ma non adesso, non discutiamo, no.
Io l’ho amato zitta. Lo sapeva, ma non gliel’ho detto mai. I complimenti sì, quelli li facevo. Ma come se erano prese in giro. Dicevo, dove vai, con quelle gambe lì, dove vai, fai vedere, metti un po’ in mostra, ma lui niente, sempre che non mi dava retta. E avanti e indietro e sposta e tira, e scava e porta, e rastrella e taglia, e sempre in movimento, quel diavolo! E quando andava in giro con la carretta, che c’erano da fare gli scalini, e gli scalini erano otto, e la carretta con la ruota sgonfia batteva nello scalino e a ogni scalino diceva una nota: “Do, re, mi, fa, sol, la, si, do!” e quando scendeva vuota: “Do, si, la lallà lallà lallà, do!”, perché al contrario non la sapeva mica dire, e quando spaccava la legna, andavo a sedermi sulla pietra grande del sentiero, stavo lì.
“Cosa fai lì”, diceva, e con la canottiera si puliva la fronte.
E io: “Sto qui, perché?”
E lui: “A fare cosa.”
E io: “Niente.”
E lui: “Me, mi sembra che mi guardi. Eh? Mi guardi a me?”
E io: “Ma sentilo, vanesio! C’è solo lui, da guardare!”
E lui si vergognava un po’: “E cosa guardi allora!”
E io: “Ma niente, così.”
Ma certo, guardavo lui, eh. Questo prima che ti conosceva a te, Verena, stai tranquilla, che quando poi ti ha conosciuto andavo sì a trovarlo, ma non mi fermavo a guardare. Però, che braccia aveva! Tronco fino e piegato, braccia quadrate come le travi! Tirava su la scure e la buttava giù, quasi tutta nel tronco, andava! Piegava da un lato per sfilarla, poi su e di nuovo giù, e via, che saltavano fette di legna grandi come piatti! E quando lavorava così, nella schiena era tutto uno scontro di serpenti! Io l’ho amato, non mi nascondo, l’ho amato. Era buono, Ugo. Buono come il pane. Non avrebbe spiaccicato una mosca. E chi c’era, quando una vazza gli è scappata, e lui per tenerla, si è buttato e ha preso al volo la cavessa, ma la vazza tirava, è scivolato, era in canottiera, e non mollava mica, e si è fatto tutto il campo d’ortiche attaccato alla vazza che correva, e poi era tutto rosso nelle braccia e nella pancia, meno male che teneva la testa alta, e non l’hanno pizzicato, in faccia, e chi c’era quel giorno lì? Io. E quando il manzo lo incornava per sfida, quanti ricordi quanti ricordi.
“La natura – diceva – la natura è infinita. Non sa che il sole si spegnerà e quindi morirà, anche se non è sicuro, quindi ha creato l’uomo.”
Diceva che l’uomo è la morte della natura.
“L’uomo è la creatura perfetta: è ciò che fa finire la natura”, diceva.
Io questa cosa non l’ho mai capita, e gli chiedevo di spiegare, ma non per capire, ma per l’aria che gli veniva, quando parlava di quello, che la diceva così bene, così perso nel vuoto, quella cosa, che mi faceva venire caldo su dalle gambe, fino nel collo. Ma basta così, che anche adesso, quanti ricordi davvero.

Verena, l’ex fidanzata
Ugo era
era buono.
Non era capace di far male a
una mosca non scherzo le
le prendeva sul tavolo o dietro la sedia poi usciva le liberava tornava dentro
felice.
Era
era sincero Ugo non mentiva non sapeva mentire non era capace.
Poi sì sono dovuta tornare a Torino per ragioni ragioni mie ragioni personali lui non poteva
venire io non potevo stare non c’era una via
non vedevamo come   come si potesse
ci siamo lasciati ma non non volevamo era come
mi sono
come strappata e anche lui anche lui era uno
uno strappo
ci siamo strappati lasciati non
non è come quando ti lasci e va tutto bene perché non vuoi più bene nessuno dei due ne vuole più all’altro no non è così no   noi non volevamo lasciarci ma non si poteva   è stato uno strappo come quando si strappa qualcosa    e le cose si strappano se non si dividono da sole noi non non volevamo dividerci non si poteva fare   non avremmo potuto   non so come fare come fare si poteva forse una soluzione ma non ci è venuto   e la mandria va curata e io dovevo tornare mio fratello   lo avevano
scusate
Mi diceva sempre che lui non era capace di amare, non ci sapeva fare con le donne, non le sentiva, non le capiva, sempre stato scarso con le donne, diceva così, ma a te, diceva, a te ti capisco, so sempre quando baciarti, non sapevo avesse una vena poetica, non sapevo scrivesse, credevo che la scultura fosse la sua arte, invece aveva cominciato a leggere, mi chiedeva cosa, io gli dicevo uno o due autori, lui a grappolo ce ne attaccava altri dieci, e leggeva leggeva, ma in casa sua non c’era un libro, tutto in biblioteca prendeva.
“Te Verena mi piaci – diceva – Te Verena sei brava”.
Baciava come uno che non mangia da una settimana.
“Piano – dicevo – calma”
“Che calma e calma – diceva – La calma è per i preti”.
Sapeva farmi bella. Con lui non sono mai stata brutta. Neanche appena sveglia.
“Verena, spettinata così, sembri una diva del cinema.”
“Verena, hai le pieghe in faccia che sembrano una rosa.”
“Profumi di fiori”, diceva, e avevamo mangiato aglio, e dicevo “ma se sentissi un altro che diresti, che profuma di fiore?”
“Ah, no – diceva – un altro no, un altro lo caccio via con il moschicida”.
Non so quando ha iniziato a scrivere, forse quando sono andata via. Ci sentivamo, diceva che non dormiva, non riusciva. Le mucche stavano male di nuovo, avevano cominciato a morire credo sia questo. Questo lo ha ucciso.
È il peso del dolore
l’ho amato tanto gli ho detto addio
un addio è per sempre non pensavo per sempre
non pensavo per sempre.
Scusate.

Il fratello di Gero
Non è morto, Ugo. Voi, lo dite. Ma non è morto. NO! E allora la bara? Perché è vuota?
Lo ammiravo, mi trattava da pari. Facevamo braccio di ferro, mi batteva. Era l’unico a trattarmi da uomo. Non da handicappato. Questa sedia non lo spaventava. Se doveva dire qualcosa, la diceva. In faccia. Si sedeva, per parlarmi. Se c’era da mandarmi in culo, mi mandava. Alla sua. Non diceva parolacce.
“Macaco! – mi diceva – Rapa, sei un rapa, fammelo dire!” diceva.
Diceva: “Fammelo dire”.
Non è morto, c’è la certezza? No! E allora! E se se ne fosse andato? Perché no? Scappato via, da un’altra parte, lontano da voi, da noi, da tutto. Lo conoscete, lo conosciamo, no, com’è fatto? Magari ha lasciato apposta l’ape, per farci credere! Poi se n’è andato! Non lo sapete, nessuno può!
Quando veniva giù col formaggio in spalle, anche se poteva venire giù in ape, ma lui no, era sempre venuto giù così, e continuava a fare così. Veniva al bar, posava il formaggio sul banco, prendeva un tè.
E il bar si riempiva di formaggio, il barista si incazzava.
“Cosa ti arrabbi! – diceva – Lo faccio buono, ne prendi sempre!”
Il barista sventolava con lo strofinaccio, apriva la finestra.
Io ridevo.
“Cosa ridi, te! Sempre che ridi! – diceva – Vuoi del formaggio?”
Ma a me il formaggio non piace. Nessun formaggio, neanche il suo. Però si rideva.
Se fosse morto, ci sarebbe il corpo, no? O sulle pietre, o giù in fondo al fiume. Ma ma ma: ma cosa! Non l’hanno trovato perché non c’è! E non lo troveranno! È troppo furbo, Ugo! Troppo.
Quando si discuteva, lui guardava come se fosse uno spettacolo, la discussione. Non capiva quasi mai, sul perché si stesse discutendo. Ma discutevamo poco, io e lui. Mi spingeva ai giardini, a volte. Stava attento alle buche. Ai tombini. E inclinava la sedia, nelle discese. Se mi cadeva una gamba, si fermava finché non la tiravo su. Metteva a posto i poggiapiedi, nel caso. E ai giardini ci fermavamo all’ombra. Non dovevo dirglielo io, di non lasciarmi al sole. Lo faceva lui, da solo. Chiacchieravamo. Non gli piaceva litigare. Non sono mai riuscito a farlo incazzare davvero, mai. Ci ho provato, non ce l’ho fatta.
Mi sarebbe sempre piaciuto, avere un orto. Ma non posso. Come faccio, con ’sta cosa. Però gli chiedevo. Mi raccontava. Che di melanzane non ne piantava più, che non facevano. Che lo zucchino vuole il letame. Che i pomodori bisogna curarli da piccoli, attenzione alla pioggia. Che al porro gli devi tagliare la foglia, se no tocca terra e gli sale la mosca, che poi si chiama mosca, ma non vola. Che alla fava devi togliere la cima, per limitare i pidocchi. Che alle patate, se la pianta non secca, devi dargli giù col bastone, sul fusto. Aiuta a farla seccare. Quattro legnate, e poi puoi raccogliere. Mi portava la verdura, eh Gero? Quanta verdura ci ha regalato, Ugo?
Io capisco che volete credere così. È più facile avere pace. A sperare ci si stanca. Ma io, io mi tengo l’idea. Se voi non avete voglia di aspettare, fate pure. Continuate a bastonare patate. Ma sotto la pianta secca, la patata la trovi. Forse piccola. O se no trovi la vecchia, marcia, ma la trovi. E invece qui? Cosa avete trovato? Mi tengo l’idea, io. Siamo liberi, no? Siamo liberi o no! E allora, cazzo, non è morto!

Testo: Simone Torino
Immagini: Margareta Nemo

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