La radio annunciava sangue, fatica, lacrime e sudore. Nell’ora più buia e solenne, non aveva altro da offrire, se non l’onestà necessaria a guidare la Britannia nel trionfo sul Male.
Churchill, degno cavaliere di quei tempi, masticava sillabe smussate con bizzarra cantilena da predicatore. La guerra non era affar nostro, eppure i potenti ce la trascinavano addosso ancora una volta.
Pensai a Gavin, rivissi il suo ultimo addio, settimane addietro, disperso in un mare di fazzoletti irrequieti dentro la burrasca salmastra di lacrime, quei suoi occhi combattuti tra doveri e affetti erano fari che non smarrivano mai la purezza nel caotico oceano degli scontri umani. Abbandonai così il figlio più caro ed estirpai le mie radici nelle Lowlands, solitaria tra la massa sul transatlantico.
L’unione invocata dalla voce d’etere, da ritrovarsi nell’artificio della Union Jack, era ciò di cui i popoli erano da sempre abituati a diffidare. Malgrado questo, Gavin fu fedele all’investitura del suo giuramento che trascendeva odi razziali e vincoli di patria. Un medico non nega il suo aiuto, aveva spiegato, non scapperò da Londra ora che è minacciata. Lui, che Londra l’aveva conquistata con le unghie e con i denti, ingollando pinte di disprezzo e scherno.
Sarebbe più comodo se l’intero mondo migrasse a New York, sostenevano i fratelli e tutto il resto della famiglia, eppure Gavin non avrebbe abbandonato né le umili origini, né i suoi traguardi nella terra di San Giorgio. Mai. Sbocciato dalla crisalide di fatiche e studi, mi era apparso diverso da qualunque uomo avessi mai conosciuto: non una donna nel suo cuore, nemmeno un vizio o una banale passione, bensì un fuoco di dedizione. Fu lui a donarmi la mia prima radio.
Quello stesso apparecchio gracchiava ora di stormi meccanici, di morte grandinata dalle nuvole e di città che la notte ammutolivano le luci, paralizzate in attesa del sole. Senza nominarlo, parlava di Gavin, troppo occupato tra le corsie malandate per dedicare un solo pensiero alla vecchia madre. Egli camminava tra la morte e le offriva le spalle, incurante. Il suo cuore era un grande asilo in cui riverberava l’eco del bisogno da cui non poteva distogliersi. Non lo interessavano i discorsi sulla Britannia unita al fronte: aveva dimesso bandiere e divise una volta scoperto come il dolore vestisse chiunque allo stesso modo. Al momento apparteneva a Londra perché Londra era nel bisogno, ma avrebbe potuto trapiantare il suo sguardo ovunque.
Mi precipitò così addosso la notizia di una bomba abbattutasi proprio sul St. Bartolomew.
Il gesto codardo di colpire un ospedale mi apparve come l’essenza stessa del conflitto e dovetti lottare per non perdere sintonia con la speranza. Tuttavia, il crollo evocava nient’altro che morte, e attraverso le parole dello speaker potevo solo scorgere un inferno di Britannia ridotta in macerie, incendi e anime in pena. Smisi di temere per un figlio, presi a tremare per il mondo: se Gavin e gli uomini come lui non fossero sopravvissuti, sarebbe stato peggio che aver perso la guerra. La guerra non sarebbe finita mai.
Eppure morì anche il conflitto stesso, infine, polverizzandosi in una pace troppo bruciante per essere davvero benigna. Gli Stati Uniti, autoeletti per bocca di Truman paladini del mondo grazie a un definitivo atto disumano, adesso mi gravavano con l’orrore di una medicina che si era dimostrata più spaventosa del male stesso.
Fuggii allora attraverso l’oceano, verso Londra. Trascurai il decadente scheletro delle città e il volto spento delle campagne; di vita ce n’era ancora, ma forse era solo inerzia alla sopravvivenza. Proseguii oltre, inquieta nella ricerca, fino ad afferrare ciò che restava di mio figlio. Gavin, mai vittima del suo tempo, ma neppure tiranno. Non più mio. Trattenni baci e carezze, scrutai invece il fondo dei suoi occhi. Occhi che riflettevano un paesaggio diverso da quello assorbito, la giusta frequenza di bene, la sua visione. La guerra era vinta, diceva la radio.

Testo: Francesco Quaranta
Immagine: Burla Manu

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