Strip Advisor presenta
BOLIVIA

Se arrivate dal Nord dell’Argentina avete due modi per entrare in Bolivia:

1-Portare un grosso sacco di plastica colorata sulla schiena, indossando un poncho e un cappello di inizio Novecento, per provare ad attraversare liberamente e impunemente il ponte dell’amicizia (uno dei tanti che uniscono paesi mica tanto amici, vedi Myanmar-Thailandia, Corea etc..).
2- Fare la fila con i vari blancos dotati di passaporto o carnet di identità e spendere gli ultimi pesos in gelati confezionati.

La linea di confine tra La Quiaca e Villanzon esiste nell’immaginario di burocrati e cartografi, ma la realtà somiglia più a un sistema portale di scambio ematico: flussi di beni che entrano ed escono, tanti globuli rossi o policromatici che scambiano il proprio carico di merce a buon mercato in cambio di platain un flusso continuo.

Il consiglio è di aggregarsi a un gruppo di argentini con la chitarra, perché da gringo non si è mai abbastanza al sicuro intorno alle frontiere. Poco importa se il gruppetto in questione sia dei quartieri buoni di Buenos Aires: chitarra e braccialetti di spago formeranno comunque un velo protettivo che renderà più opaco il grosso simbolo di $ (a voi invisibile) impresso sulla fronte di chi nasce nel primer mundo.

Sopportate l’imbarazzante rumorosità dei viajeros argentini, la ripetività delle canzoni Folk-rock-cantautoriale-nacional, dei cori del River Plate e la loro dipendenza fisica dal THC. Vi farà piacere parlare di Tool e Porcupine Tree sobbalzando tra le voragini della strada in un autobus senza sospensioni, condividere i lividi e il freddo delle notti andine con qualcuno che, come voi, viaggia perché gli va e non perché deve, in fondo loro sono lì per sentirsi ricchi e fingersi poveri, mal comune mezzo gaucho.

Gli argentini hanno ormai perdonato la Bolivia anche per l’uccisione del Che, quello delle magliette e delle canzoni di Silvestri, forse perché la storia ha avuto la mano pesante con i boliviani o forse perché il River Plate ha comprato Trezeguet e quelle storie sembrano così lontane, comunque gli accordi di “Hasta siempre comandante” non li hanno ancora dimenticati.
Prima di tornare a fare i viaggiatori fate i turisti. Potete di nuovo permettervelo! Con 10 bolivianos (1€) ci comprate un succo di frutta fresca, due humitase cinquanta foglie di coca, che aiuteranno non poco a sopportare il mal d’altitudine, soffuso ma costante.
Per riprendervi dalla gita a cavallo nel deserto vicino Tupiza non c’è niente di meglio di un bagno in una pozza termale a quasi 4000 metri di altitudine. Dormite in un albergo completamente fatto di sale, letto incluso, e resistete alla tentazione di leccare il muro per controllare che sia veramente così.

Non dimenticate gli occhiali da sole se non volete macchiare indelebilmente la vostra retina al salar de Uyuni. Bene, ora vi dovreste essere acclimatati all’altitudine, al riso con pollo e al sapore amaro delle hojas, per cui liberatevi della “zavorra” albicelestee andate a Oruro, non c’è niente laggiù ma andateci lo stesso.


Potreste imparare qualcosa sulle divisioni sociali acute del paese, su quanto profonde siano le cicatrici nel suolo e nella gente, causate dallo sfruttamento minerario; dei venti di cambiamento e dei danni che alcuni di questi venti causano, le contraddizioni di chi vuole assomigliare all’occidente senza conoscerlo davvero e di chi crede che delle bandiere a scacchi colorati possano cancellare secoli di sofferenze e ferite.
Potreste trovarvi perplessi davanti all’ennesimo e paradossale esempio di una terra ricca di risorse e materie prime che portano disgrazia e povertà ai suoi abitanti, arricchendo quelli di paesi lontani che queste materie non le hanno.
Prima di mettere realmente in discussione qualcosa di voi, tornate alla vostra egoistica e appagante crociata esplorativa, hasta la capital.

La Paz è una città al contrario: di solito le città si ergono su un poggio o su un crinale o quanto meno si sviluppano su un piano. Beh, La Paz sembra affossarsi in una conca. Non fatevi ingannare dall’aspetto scosceso e dalle vette all’orizzonte, vi trovate comunque oltre i 3600 metri di altitudine (700 metri sopra il Gran Sasso, per capirsi).

I pochi scalini che ci vogliono per raggiungere il vostro ostello saranno ogni volta una tortura. Con un po’ di pratica imparerete a districarvi tra il sistema di trasporti locale, costituito da furgoncini stracolmi con numeri e colori che non seguono alcuna logica e un bambino di circa 12 anni che strilla nomi incomprensibili dal finestrino. Dovrete salire e scendere in corsa perché non si fermano mai.
A plaza Murillo osservate le donne Quechua e Aymara con la loro varietà di bombette e cappelli europei d’altri tempi, buffi e inconsapevoli cimeli di oppressioni lontane-ma-non-troppo.
Prima di avvertire sensi di colpa per una storia che non vi appartiene, tornate tra i vostri simili. Potreste condividere birra e storie di viaggi con altri gringos, in uno dei tanti ostelli festaioli della città. là dove la fauna è altrettanto variegata.
Tra scozzesi quarantenni ‘espatriati’, australiani cocainomani e canadesi diciassettenni, sentirete tante storie. Vorranno farvi ingelosire vantando le loro esperienze da ‘volontari’ vicino Cochabamba, quando portavano giaguari al guinzaglio per la giungla. Ma non dategli peso, voi siete stati a Oruro.

Vi convinceranno a scapicollarvi per la “strada della morte” in bicicletta, e altre attività che tanto appassionano il backpacker medio.

Si dice che il famoso alcaloide tanto in voga nelle cene eleganti nostrane sia stato inventato da una farmacia di La Paz. Si dice che la boliviana sia meglio della colombiana. Si dice che bussando alla porta giusta si possa arrivare in un bar dalle luci soffuse e dall’atmosfera ilare, che si possa ordinare al bancone con nonchalance, al prezzo di una birra. Ma si dicono tante cose a La Paz.

Di certo avrete voglia di compagnia occidentale nel caso in cui decideste di scalare il monte Potosì. Penserete che ormai siete acclimatati all’altitudine, che tra i quattro e i seimila mila metri non cambi poi tanto. Che una scorta di foglie di coca da succhiare in un grosso bolo tra la guancia e le gengive ha permesso ai piccoli inca di saltellare tra i picchi andini come Heidi su un lama in calore.


Si pensano tante cose. Mentre riprendete fiato a ogni passo (cercando di ricordare chiccazzovelohafattofare di spendere il budget di una settimana per patire come in un’ultra-maratona con i postumi da sbornia di Baileys) la vostra guida vi aspetterà impaziente, con lo sguardo di chi si fumerebbe anche una sigaretta. Qualcuno del gruppo non arriverà in cima e questo vi gratificherà quasi quanto il sorgere dell’alba sui picchi aguzzi, il vento che sembra fischiettare gli Inti-Ilimani e la rielezione di Evo Morales.
Testo: Shakai
Immagini: Bernardo Anichini

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