Strip Advisor presenta:
PANAMA

“Di andare ai cocktails con la pistola non ne posso più…”
Comincia con questa strofa la canzone “Panama” di Fossati. Giusto per dare un’idea del tipo di personaggi che si possono incontrare nei bar del posto. Li puoi trovare indifferentemente nei locali raffinati, così come nelle bettolacce. Cambia soltanto l’abbigliamento, ma le facce restano le stesse.

Ci sono quelli loschi a prima vista e quelli che, invece, a vederli non lo diresti mai, però lo sono.
E proprio la prima sera, il Casco Viejo (il centro storico di Panama City) mi ha messo di fronte a questa contrapposizione. Tornando a piedi verso l’albergo, circa le tre di notte, decido di concedermi ancora una visita a un paio di posticini adocchiati in precedenza. Il primo, non ricordo il nome, è davvero molto chic, luci soffuse, divanetti in pelle, persino gli sgabelli davanti al bancone di marmo hanno un design elegante, come le divise delle cameriere e dei baristi. Alle loro spalle c’è uno specchio gigantesco e una specie di mosaico raffigurante la Monna Lisa. Ecco dove inciampa il gusto raffinato. Basta girare lo sguardo e ci sono finti affreschi e capitelli corinzi di marzapane. In una cornice simile, non stona per nulla la tavolata che vedo in fondo alla sala. Potrebbe essere una riunione della Confindustria panameña oppure della cupola di Cosa Nostra, lo stile è quello. Mi viene in mente l’aneddoto che mi ha raccontato il gestore di un altro bar su certi italiani che vivono a Panama, gente che parla la nostra lingua finché non si accorge che ci sono connazionali nelle vicinanze, poi comincia a parlare in spagnolo. Che si tratti dei trafficanti e rifugiaticitati nella canzone di cui sopra? E sembra molto azzeccata la presenza di alcune signorine discinte in mezzo a quegli anzianotti coi capelli impomatati, rolex, braccialetti d’oro e camice sbottonate. Mi chiedo di cosa stiano discutendo. Staranno decidendo a quale banca rivolgersi per riciclare del denaro sporco o, magari, staranno negoziando uno scambio di droga e armi. Potrei avvicinarmi per sentire se parlano o meno in italiano, ma preferisco non fare la parte del curioso.

Finisco il mio bicchiere e mi sposto in un altro bar. È poco distante, solo un isolato più in là. Ma basta per cambiare completamente ambiente. Sono stato attirato dalla sua facciata, le persiane di legno di colore azzurro acceso, dipinta una bella bionda con un vestitino rosso attillato e circondata da fiori, accanto la scritta “refresca lo panameño que hay en ti”.
L’interno del locale, invece, è quanto meno degradato. Il pavimento è lercio. I manifesti sulle pareti, pubblicità di birre e alcolici vari, sono scoloriti dagli anni, alcuni tendono al giallo, altri al blu, screpolati come certe vecchie fotografie. Il bar è spoglio, soltanto un bancone, quattro tavolini defilati e una sfilza di slot machines sul lato opposto, tutte occupate. Una donna smette di giocare esclamando “puta mierda” e va dal barista per farsi dare altre monetine, poi saluta l’uomo seduto sullo sgabello accanto al mio. Lui la guarda e scuote la testa. Piuttosto che buttare un solo Balboa in quelle macchinette, dice, preferisce spenderlo per bere una birra…che tra l’altro si chiama nello stesso modo: Balboa.
La moneta nazionale, la birra nazionale, ma anche un’avenida importante della Ciudad. Tutto intitolato all’esploratore spagnolo che scoprì l’oceano Pacifico, anche se a me piace credere che sia in onore di un pugile italo-americano. Ma l’unico pugile che conta a Panama è Roberto Durán, Manos de Piedra. L’uomo seduto accanto a me, comunque, stappa la sua bottiglia di Balboa e m’invita a un brindisi. È curioso di sapere cosa ci faccia uno straniero in questo bar. Ci presentiamo. Lui si chiama Ruben.
Ha l’aspetto di un pirata, capelli neri e lisci, lineamenti da indio, fisico tarchiato, orecchini e un guazzabuglio di tatuaggi. Io e Ruben chiacchieriamo di musica, perché lui sta organizzando una serata di industrial in qualche zona della Ciudad che non ho ben inteso. Inizia a parlarmi di alcuni narcos di sua conoscenza che potrebbero finanziargli il concerto. Ma Ruben preferisce non fare affari con loro, perché sarebbe come stringere “un pacto con el diablo”. Purtroppo, parole sue, è difficile evitare certe amicizie nel barrio. Così come è difficile evitare certe situazioni. A dimostrazione, mi mostra alcune ferite da accoltellamento: una piccola sul fianco e una grossa sulla pancia (sembra che abbia subito un parto cesareo). L’uomo che lo ha aggredito adesso si trova in galera e Ruben mi dice che alcuni suoi amici, dentro, avrebbero voluto dargli una ripassata. Ma Ruben vuole che l’altro esca di galera sano e in piena forma per potersi vendicare come si deve. E così che funziona nel barrio e lui deve rispettare la consuetudine. “Perché io, invece, sarei por paz y amor”. Poi, però, mi racconta di aver vissuto molti anni facendo i combattimenti clandestini. Guadagnava parecchi soldi e gli avevano anche proposto di partecipare a tornei più importanti, contro turchi, serbi, negrose gente della legione straniera.
“Son fucking asesinos.”
E Ruben non aveva voglia di farsi ammazzare di botte. Peccato, perché avrebbe potuto intascare mucho dinero.
Es mejor que trabajar…perché io, altrimenti, sarei por paz y amor”, ripete.

 

Sembra un personaggio ai limiti dell’assurdo, ma non si può negare che sia in pieno stile Casco Viejo. Come quel ciccione ubriaco che la sera successiva è entrato nella bettola in cui stavo mangiando.
Essendo senza gambe, ha fatto il suo ingresso su un carrellino con le rotelle simile a quello usato da Eddie Murphy in Una Poltrona per Due. Nonostante l’ubriachezza e qualche collisione contro le sedie, riesce a issarsi e mettersi a tavola. Accanto al sottoscritto, ovviamente. Inizia subito a blaterare qualcosa circa la mancanza di rispetto dei giovani che pomiciano nella piazza della Catedral. Attirata l’attenzione su di sé, pone a tutti i presenti una domanda: qual è l’acqua più pura e più ricca del mondo? Nessuno gli risponde. Lui ripete la domanda e qualcuno risponde che si tratta dell’acqua di qualche santuario.“No. L’agua mas pura y mas rica de todo el mundo es l’agua del Canal.”
Del resto, il tassista Gabriel mi ha spiegato che le navi che passano dal Canale pagano una tassa che, a seconda delle dimensioni e del carico trasportato, può arrivare fino a quattrocentomila dollari. E ogni giorno passano di qui tra le venti e le trenta navi. Fatevi due conti.
Gli ho chiesto: “ma se costa così tanto passare dal Canale, quanto cazzo costerà circumnavigare Capo Horn?”“Miliones.”
Ecco perché i panameñi sono così orgogliosi del loro canale, a loro dire l’ottava meraviglia del mondo, come King Kong.
“Gli arabi hanno il petrolio, nosotros tenemos l’agua del Canal”, dice biascicando il pingue ubriacone senza gambe, poi starnutisce e si soffia il naso con la tovaglia. Questa è la gente del Casco Viejo e questi sono i suoi bar. Inutile dire che io ne ho girati parecchi.

Ad alcuni ero particolarmente affezionato, come il Finca del Mar, con le sue sedie a dondolo di stoffa appese alla tettoia e le due splendide cameriere, Sorriso e Occhioni. Era una delle mie mete abituali, tanto quanto la cervecerìa artigianale Rana Dorada, che prende il nome dal minuscolo ma pericolosissimo simbolo di Panama, uno degli animali più velenosi al mondo. La birra prodotta nella cervecerìa, per fortuna, non era velenosa, anzi. Degno di menzione è anche l’Espacio Panama, che non ha il tetto ma offre della buona musica (fare attenzione alla vecchietta-buttafuori di guardia alla porta). Altri bar li ho scoperti per caso, come quello in cui mi sono rifugiato per sottrarmi al sole estenuante durante una passeggiata nel Barrio Chino.

Appena entrato, una trentina di persone si volta a guardarmi. Cosa ci fa lì dentro uno straniero? Che domande…ordina una Balboa ghiacciata e si rinfresca. Neanche il tempo di finirla che mi passa davanti una signora, apre un armadietto metallico alla mia sinistra, deposita la sua borsetta e, preso per mano uno dei clienti, lo porta con sé in un’altra stanza. Sono finito in un bar di puttane. Un’altra donna esce dal bagno, raggiunge lo stesso armadietto e vi ripone un rotolo di carta igienica. Un barbone completamente sbronzo si avvicina e le tocca il culo. Lei replica percuotendolo con la borsetta e sferrando una serie di calci nelle zone basse. Le grida e gli insulti provenienti dal tafferuglio mi accompagnano mentre raggiungo l’uscita di soppiatto.

Un altro bel giro di bar l’ho fatto poi a Bocas del Toro, nel nord del paese. Contesto del tutto differente, ma anche lì si passa dai localini più alla moda, le tipiche palafitte del posto con la terrazza che s’affaccia direttamente sul mare, al chiosco per surfisti e fricchettoni, dove o bevi birra o mangi cheviche de pescado… o ti attacchi. Poi ci sono i locali di musica latina, quelli strutturati come gazebo di classe con sdraio di vimini e amache appese qua e là, o quello in stile cambusa di una nave, con i baristi più ubriachi della loro clientela. Anche a Bocas, i personaggi loschi non mancano. Sorvolerei su alcuni viaggiatori abbastanza pittoreschi con cui ho fatto conoscenza. Meglio concentrarsi su un soggetto autoctono, Johnny Loco.
È stato proprio lui a farmi da guida notturna per la mia prima serata a Bocas, portandomi a spasso da un locale all’altro.
“Perché Johnny Loco?”
“Mira, amigo, porque soy loco…”
“Ah!”
Cosa fa nella vita? Tutto quello che capita, pur di racimolare quattrini. È un trafficone, insomma. Dice di aver trovato un vecchio californiano che lo usa come factotum e lo paga molto bene. Quindi, comincia a raccontare che suo padre è mancato quando lui era un ragazzino, parla della madre che vive sola ad Almirante e a cui Johnny passa un po’ di soldi. Ha due figlie nella Ciudad, ma la sua ex non gliele fa vedere (chissà perché?).
Johnny è un tipo allegro e spiritoso, molto esagitato. Non sta fermo un attimo, né zitto. Caratteristiche che, insieme allo smascellare e sudare in modo abnorme, denotano un qualche problema con la cocaina. Grosso difetto, la chiacchiera logorroica: una volta che ha finito di raccontarti tutta la sua vita, ricomincia da capo e così all’infinito: il vecchio californiano, il padre morto, la madre rimasta sola…comunque, nella sua loquacità esagerata, Johnny mi dà parecchie informazioni interessanti sul luogo. Durante la nottata, peraltro, facciamo un tour di sei, sette localini. Johnny vuole pagare a tutti i costi i primi giri di bevute. Quando finirà i soldi, sarà il mio turno. Dovunque andiamo, tutti sembrano conoscerlo. Non mi stupisco, vista la facilità con cui attacca bottone. Mi indica spesso gruppetti di persone, definendoli grandes amigos. Va a salutarli, ma loro paiono soffrire un po’ la sua molestia logorroica.
“Volevano che rimanessi con loro, ma gli ho detto che questa sera la passo con il mio amico italiano.”
Ma Johnny Loco sembra vivere in una specie di mondo di fantasia, in cui lui è l’idolo delle folle e tutti lo adorano. Non sarò certo io a negargli questa visione della realtà. A un tratto, passiamo davanti a un locale abbastanza fichetto. Dentro ci sono solo turisti, per lo più americani, polo e mocassini a non finire. Sul terrazzino, una ragazza suona il sassofono.
“Johnny, andiamo qui. Voglio ascoltare il sax.”

Senza dubbio, non è il posto adatto a tipi come lui. Canottiera e ciabatte, fattissimo, non oso immaginare che effetto possa fare in quel bar. Però l’idea mi diverte e insisto. Lui non osa contrariarmi. Entriamo. È stato come gettare un petardo durante una prima al Teatro Regio. Nell’arco di mezzo minuto, Johnny Loco ha già molestato e messo in fuga diverse persone. Io me la rido di gusto. È l’apice di una nottata divertente, in compagnia di uno dei vari panameñi degni di essere conosciuti. E se dopo questa carrellata vi sarà venuta voglia di addentrarvi nei bar di Panama, non dimenticate “di andare ai cocktails con la pistola”
Testo: Fabrizio Di Fiore
Immagini: Bernardo Anichini

 

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