Alla fine la denuncia per plagio fu ritirata e il procedimento penale terminò in un nulla di fatto. Quanto ai danni, si divertirono a tenerci sulla graticola. Era una cosa molto più grande di me: il gruppo editoriale – di cui mi è stato espressamente imposto di tacere il nome – era un colosso, un mostro, un leviatano, ma l’autore che gli stava davanti era molto più grande del leviatano, aveva dimensioni da capogiro.
Il mio avvocato era papà; il loro avvocato era una società di ebrei americani con i soliti nomi – Hoffman & Joffe, o una cosa del genere. Papà non conosceva l’inglese e per le traduzioni si affidava a una segretaria che si affidava a Google Translator; Hoffman & Joffe sostenevano che il foro competente per la controversia fosse New York.

Essere in causa con Philip Roth, per cifre enormi, lunghissime, cifre che non avrei potuto mettere insieme in una vita, e rischiare una condanna penale: l’enormità del fatto mi induceva a fare finta di nulla, e mio padre si comportava più o meno allo stesso modo. La causa Roth contro Vendemiale diventò, nelle nostre rare conversazioni sull’argomento, Quel problemino.
“Notizie di quel problemino?”, oppure: “Passa in studio, parliamo di quel problemino“.
Fui graziato. Nel giro di sei mesi ci fecero una proposta di transazione non rifiutabile, un accordo su una serie di restrizioni a mio carico e un risarcimento danni simbolico: mille e duecento dollari per chiudere la questione, una somma irrisoria che pure era stata calcolata in qualche modo e sembrava portare un contorto messaggio sull’irrazionalità del mondo. Accettammo.
All’appuntamento nello studio di mio padre, per chiudere l’accordo di transazione, mi aspettai fino all’ultimo di veder apparire il signor Roth in persona; apparve invece un referente italiano dello studio legale, dall’accento toscano. Firmammo. Notai che anche l’avvocato, come il suo mandante, aveva la testa calva e una corona di capelli neri alle tempie e sulla nuca.
Non posso fare riferimenti espressi all’opera che avrei plagiato, il che vuol dire che non posso citarne brani, titolo o trama, e mi è stato imposto di non ripubblicare il racconto che mi ha messo nei guai, né in forma integrale né per estratto. Nulla però mi vieta di raccontare quello che è successo: cercherò di farlo muovendomi fra questi paletti.

Il titolo del romanzo di Roth aveva un’evidente, parodistica impostazione da storia di spionaggio e citava un personaggio shakespeariano divenuto emblema per l’ebreo della diaspora – non posso essere più chiaro di così.
Lo lessi: come per molte cose di Roth, non fui in grado di esprimere un giudizio nitido alla prima lettura. Non avrei saputo dire se mi avesse attratto in qualche modo o solo annoiato; la sua bellezza era frammentaria e folle; il romanzo iniziò ad affascinarmi per lenta intossicazione, alcuni giorni dopo averlo finito. Lo rilessi e mi trovai più confuso di prima: possedeva la mistificazione e le riflessioni ampie della letteratura, ma aveva l’andamento illogico della vita reale.
Nel libro le cose accadevano per affastellamento, senza un disegno, o secondo un disegno talmente astruso da sfuggire allo sguardo – almeno al mio. La vita reale, mi dissi, è a questo modo: ecco il fascino che subivo, assieme alla grandezza dell’espediente che faceva da presupposto alla vicenda e che non posso citare senza violare gli accordi firmati.
Mettiamola così: grazie a questo espediente la storia si presentava come realtà, ma si scontrava senza compromessi con il falso, contro un falso incarnato da un doppio dell’autore, replica grottesca della cosiddetta realtà. E dallo scontro era la realtà a uscire a pezzi, amputata del suo presunto contenuto di verità. L’ultimo romanzo di Ellis, che aveva per protagonista Ellis, cercava di fare la stessa cosa ma combinava un pasticcio repulsivo; Walter Siti e la sua brillante storia autobiografica ci prendevano in giro con furbesche premesse che negavano la verità di tutto quel che seguiva; in Roth, in questo Roth casuale come è casuale la vita, in cui il verosimile se ne andava al diavolo proprio come succede nella vita, falso e vero erano la stessa cosa e possedevano lo stesso valore. Il tutto accadeva contro lo scenario torbido e stilizzato di una vicenda di spionaggio, di simulazione e inganno: il risultato era allucinatorio. Senza averlo capito o apprezzato fino in fondo, mi misi a dire in giro che il romanzo era un capolavoro. Di lì in poi mi lasciai ossessionare dalle autobiografie fasulle. Misi ad apertura del mio romanzo – autobiografia fin troppo reale – qualcosa di molto simile a quello che avevo letto in Roth, una sola frase equivoca, ambivalente, che poteva riferirsi tanto alla premessa che seguiva quanto al romanzo che introduceva. Questa confessione è falsa.

Ricevetti una telefonata di congratulazioni dal mio vecchio editore:
“E bravo! Un racconto pubblicato su ‘Altri argomentiì! Come chi? Chi è che scriveva lì su? I due pelati col pizzetto, quelli giovani. Bravo Vendemiale. Fra un po’ ti esce il romanzo pubblicato dal cavaliere, fai il botto e mi ricompri tutto lo champagne che ti ho offerto.”
Ridacchiai, feci qualche domanda di circostanza, parlammo del più e del meno e chiudemmo la telefonata. Diedi per scontato che quella battuta sul racconto pubblicato da “Altri argomenti” fosse uno scherzo bizzarro e surreale, e me ne dimenticai in fretta.
Le seconde congratulazioni mi arrivarono per mail, da Bellomo, e non fui in grado di collegarle alle prime. Nuove congratulazioni da parte di un cugino giornalista mi costrinsero a rimettere insieme i dati: fui sfiorato dall’inquietudine dell’assurdo e feci una ricerca in rete senza grandi risultati, scoprii solo che vendevano “Altri argomenti” alla Feltrinelli in centro. Lì presi per la prima volta la rivista fra le mani: aveva le dimensioni di un quadernetto e un’impostazione sobria, non contemporanea.
Lessi il colophon, passai a scorrere l’indice; il racconto di Eugenio Vendemiale, pubblicato a pagina 47, era intitolato La messa è finita: una sfacciata storpiatura del titolo di un mio inedito.
Trovai in fretta decine di spiegazioni plausibili per sfuggire all’inspiegabile e sedetti al bar con una birra, a leggere il racconto. Le tre paginette mischiavano con qualche limatura alcuni dei brani che avevo pubblicato in rete su un mio blog, “Vendemiale scatenato”, cancellato per sempre assieme alla definitiva chiusura di Splinder. Se vi interessa, un link dal titolo Vendemiale scatenato esiste ancora in rete, ma porta nel nulla ed equivale a una lapide per quella che un tempo è stata la mia esistenza pubblica, un’esistenza pubblica che si riduceva a una ventina di lettori al giorno.
Finendo la birra e rileggendo il racconto e usando la ragione limitai il novero dei possibili autori di questo scherzo da prete a un terzetto, ai soli che conoscevano Vendemiale scatenato e anche il titolo del mio inedito. Mi dissi che era stato Bellomo, forse per realizzare un qualche suo perverso progetto artistico. Fui persino lusingato e fiero di essere arrivato alla pubblicazione per qualcosa di mio, anche se l’autore di quel racconto non ero io. Non ne parlai in giro, ma scrissi una mail all’ufficio diritti di “Altri argomenti”, per sapere qualcosa in più dell’intera storia – e, lo confesso, per bussare a denari. Non mi hanno mai risposto.

La farò breve. Da un lato mi dissi che, se “Altri argomenti” mi aveva pubblicato una prima volta, avrebbe di certo potuto pubblicarmi una seconda volta. Dall’altro lato un indefinibile sentimento a metà fra l’indignazione e lo stordimento – dovuto alla subdola violazione della mia identità, al fatto che mi avessero trasformato in falso – mi spingeva all’autorialità. Iniziai a scrivere di getto un racconto in cui incontravo il mio doppio usurpatore al bar di un hotel, dove ci mettevamo a discutere di letteratura.
Era tanto postmoderno: la rivista non avrebbe potuto rifiutarlo. Come spesso accade, dopo l’entusiasmo iniziale per la storia ebbi la triste impressione di star componendo qualcosa di noioso. La chiacchierata fra il vero Vendemiale e il falso Vendemiale non decollava. Decisi di fare come faccio sempre in questi casi: dare alla storia una bella spennellata di sesso. Emerse naturalmente, da qualche parte della mia psiche, un’idea: il falso Vendemiale avrebbe avuto una menomazione orrenda, avrebbe avuto un falso pene di plastica, manovrabile attraverso una pompetta elettrica. Con la stessa inconscia spontaneità misi al bancone del bar un cameriere che a un certo punto della storia si chinava all’orecchio del Vendemiale-autore per sussurrargli l’offerta di un pompino. In qualche modo chiusi un racconto mediocre e lo spedii ad “Altri argomenti”, assieme a una lettera d’accompagnamento verbosa che alludeva allo sdoppiamento. Non mi hanno mai risposto.

Mi scandalizzai per il loro silenzio, mi impuntai, mi persuasi che il racconto valeva qualcosa e trovai un secondo editore bolognese, una piccola rivista letteraria senza lettori di cui non posso citare il nome. Mi pubblicarono. Tre mesi dopo l’uscita della rivista arrivò la denuncia per plagio. Non credetti alla verità dei fatti finché la rivista non fu sottratta ai suoi inesistenti lettori e la causa per plagio registrata a numero di ruolo 3427.

“Ci è andata di culo.”
Questa è la solita frase che mio padre sfodera per chiudere l’intera vicenda, ed è una frase a cui mi attacco. In fondo – mi dico – questa è la vita reale: qualcosa che va o non va di culo.
Resta però un fatto, che è una presa in giro ai miei danni: un riflesso di falsi e doppi, la replica di un plagio che, alla fine dei conti, mi è costato mille e duecento euro.
L’identità pubblica è essa stessa una falsificazione, una bufala. Sono allo stesso tempo un autore pubblicato e un ambizioso falsario sconosciuto ma, dato che esistiamo a patto che qualcuno ci osservi e ci valuti, esisto più chiaramente nella prima identità, che è falsa. Nella seconda sono stato semplicemente sfiorato da Philip Roth, e a questo punto non sono nemmeno certo che lui esista.

Testo: Eugenio Vendemiale
Immagini: Bernardo Anichini

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