UMID(O) presenta

 

PORNO DIORAMA

Mi spiegarono che il dottore si trovava in uno dei quei cinema per nostalgici. Tennero anche a precisare che la sala era di sua proprietà.
Il Suspiria non era soltanto uno degli ultimi cinema porno in città, ma era anche l’unico a proiettare pellicole di quel tipo: porno vintage amatoriali.

Il cinema si trovava di fronte a una chiesa e di fianco a una mensa per i poveri. Li immaginai battersi per una latta di pasta e fagioli, mentre la clientela del Suspiria indulgeva su di sé comodamente sbracata. E quelli della chiesa che si trovavano la concorrenza dirimpetto? Avevano potuto farci poco: oltre a essere stato valutato come eccellenza su Trombadvisor, il Suspiria era uno dei cinema più antichi esistenti. Malgrado ciò, continuava a sfuggirmi il nesso tra il dottor Burloni, eminente chirurgo e il cinema: le infermiere del policlinico Fratelli Fatti Bene non avevano specificato altro se non che lo avrei trovato lì, tutti i pomeriggi.
E se un cinema porno la sera può anche fare una discreta figura, di pomeriggio ha lo stesso fascino di un preservativo bucato finito in un panino dell’autogrill.

Sulla vetrata persistevano croste di manifesti che risalivano all’era spermatozoica, mentre facevano bella mostra di sé gli orari delle proiezioni. In quella fatiscenza organizzata aleggiava dell’ambiguità irrisolta. Decisi di dirigermi verso la biglietteria.
La cassiera se ne stava seduta intenta a leggere un libro dal titolo perlomeno curioso, Il Libretto dei Libretti del Buon Umore.
Mi guardò abbassando gli occhiali sul naso con uno sguardo sfatto, le chiesi se questo fosse davvero un cinema porno e quella tornò a leggere come nulla fosse per poi avvertirmi: “Se la prossima domanda è quale motivo spinga i segaioli a uscire di casa e a venire qui, puoi accomodarti all’uscita”.
Sorrisi della sua irritazione, poi lei aggiunse, “sto per chiamare la sicurezza: un amico mio, mezzo polacco, ma volendo ha anche discendenze etrusche”. Decisi che non era il caso di insistere.
“Ho un appuntamento con il dottor Burloni.”
Volse lo sguardo su un foglio con una lista di nomi.
“Lei è il signor Cappa?”
“In persona.”
“Si levi dal cazzo, in sala ne troverà altri di suo gradimento.”

Si aprì una struttura imponente, le poltrone formavano cerchi concentrici, mentre uno schermo avvolgeva la sala sino a ricoprire nella sua interezza il soffitto a forma di cupola. Il Pantheon del porno? Rintuzzai quel pensiero quando vidi una figura seduta su una poltrona rossa al centro della sala.
“Dottor Burloni?”
Nessuna risposta. Lo raggiunsi, o meglio, raggiunsi quella che scoprii essere una statua di cera con le fattezze del dottore intento a fissare il vuoto. La statua brandiva un cartello con su scritto: SI RILASSI.

Disse così anche la prima volta che lo incontrammo. Mia mamma urlava di dolore e lui, con quello sguardo che trasudava ottimismo maniacale, mi guardò e disse, si rilassi.
Mia mamma non urlava, ma certamente quel giorno provava più dolore del solito, anche se già dalla comparsa di Burloni parve sentirsi meglio.
Quello fece poche domande di carattere generico, era più che altro interessato a conoscere la nostra storia: di come mia mamma fosse rimasta vedova oppure di quanti esami mi mancassero alla laurea di Ingegneria.
Quindi si alzò, ci raggiunse, appoggiò una mano sulla spalla di mia mamma e uscì dalla stanza, non prima di avermi sussurrato all’orecchio, si rilassi.
Mia mamma mi guardò e sorrise come se già da quelle prime battute avesse trovato risposte, come se fosse tutto risolto: il dolore? Quale dolore? All’apparenza si sentiva meglio.
Le dissi di non farsi suggestionare, che il dottore non aveva fatto ancora nulla, che ormai gli specialisti privati sono, il più delle volte, dei millantatori. Di lì a poco comparve l’assistente di Burloni che le chiese di alzarsi e di avvicinarsi. Lei si stava per togliere la scarpa in modo da mostrare il dito del piede, ma lui le rispose che non era necessario, non era quello il problema. Iniziò a palparla accuratamente, annotando appunti sul taccuino. Alla fine l’assistente le strizzò l’occhio e le promise che avrebbero fatto grandi cose assieme. Si, proprio grandi cose.

La statua di Burloni lo raffigurava al meglio delle sue possibilità. Non più giovane, non migliore fisicamente, ma con uno sguardo che presagiva un eterno ritorno, come se non fosse mai stato possibile scollarselo di dosso.
“Vedremo”, dissi a bassa voce, ma le luci si spensero e in automatico decisi di sedermi.
Apparvero in sala quelle che avevo riconosciuto essere le infermiere del reparto del dottore. Venivano illuminate a turno da una luce opaca che le mistificava contornandole di un alone di ambiguità. Indossavano la tenuta dell’ospedale, ma la divisa era di un lattice bianco traslucido che le avvolgeva strette. Ballavano pur non sapendo ballare, sulle note di una musica inesistente, muovevano i loro fianchi quando il fascio di luce le avvolgeva. Si dimenavano senza mai toccarsi.
Avvertii un’erezione, esasperata da quell’incertezza: da quelle forme sarebbero potute completarsi da un momento all’altro. Le coppie si alternavano, ma i movimenti erano dissimili. Un braccio mi cinse le spalle.
“Si rilassi”, mi disse il dottor Burloni, che sedeva al mio fianco al posto della statua. La tensione inguinale si allentò, ma rimasi in silenzio, malgrado avessi già preparato un discorso. Le infermiere e il dottor Burloni formavano un tessuto geometrico psichico a cui mi pareva impossibile opporre resistenza.
Il dottore mi scrutava, i suoi occhi spalancati tracimavano sul mio essere, la sua immagine persisteva nei recessi del mio subconscio, moltiplicandosi abusivamente. Con fare navigato diede l’ordine, rilassatevi e le infermiere si fermarono; le loro forme, ormai pienamente illuminate, apparivano consunte e deformate dagli anni.

Quando mi ridestai, Burloni si alzò e io feci lo stesso. Lo seguii e finimmo per trovarci al centro di un cerchio formato dalle infermiere che, silenziose, ci fissavano, immobili come statue. Il dottore prese la parola.
“Lei scrive bene, va detto. Ho letto quel suo blog, quel pezzo sui vaccini, molto divertente. Mi permetta di citarla, ‘Il medico chirurgo Burloni, con i suoi due terzi di sorriso patinato intagliato in un’abbronzatura fluorescente…’, a volte ha solo la mano un po’ pesante: la mia abbronzatura è stata concepita per essere resiliente al succedersi delle stagioni, mi sottopongo alla prolungata esposizione di un acceleratore di raggi UV, per poi spalmarmi su una crema di carote… ma lei non è qui per parlare di creme, va detto.”
Avrei voluto chiedergli di più sul mio blog, sui miei scritti, ma sarei caduto nella trappola della sua eloquenza ammaliatrice, quindi risposi laconico: “Dove si trova mia mamma?”.
Era entrata in clinica per essere operata a causa di un dito a martello che le rendeva difficile camminare e a volte persino stare sdraiata, ma dopo il ricovero in ospedale non era più rintracciabile e all’accettazione non risultava nei registri.
Burloni fece una pausa, scrutandomi come volesse dissezionare le mie membra.
“Intanto sua mamma sta bene, meglio di così non potrebbe stare, non è quello che le dovrebbe stare più a cuore? Si rilassi, il dolore è ormai scomparso, ma il problema non è mai stato il dito a martello, va detto.”

Di nuovo le luci si smorzarono e stavolta sullo schermo, fin lì muto, iniziarono a scorrere immagini: erano trailer di film porno di prossima proiezione. Alcuni recavano la scritta VHS in basso, mentre in sovrimpressione, data e ora scorrevano, riportandoci indietro negli anni Ottanta. Le immagini generate dal proiettore mostravano una definizione esitante, i corpi si dimenavano accompagnati da una colonna sonora composta da note di piano allungate, eppure qualcosa non tornava: gli uomini e le donne in quelle scene si muovevano con una consapevolezza che pareva provenire dai nostri giorni.
Come se camminasse nella mia testa il dottore spiegò: “Sono Porno Diorama, o almeno, io amo definirli così. Ricostruiamo il passato, ne cogliamo l’essenza, con attori che non sono tali: è gente qualsiasi che non è in grado di recitare e nemmeno di essere naturale. Così il diorama diventa vivido, credibile come un porno amatoriale vintage originale: gli spettatori non si sono mai accorti della differenza o forse non hanno mai voluto accorgersene, va detto. Gli diamo in pasto ciò che cercano. E cosa cercava sua madre nella sua solitudine? In quel continuo mistificare il cibo come un ipotesi di salvezza… Non una semplice operazione chirurgica ad un arto minore, non scherziamo. Il mio assistente si era accorto sin da subito che quel corpo, il corpo di sua madre, fremeva per essere resuscitato, lo abbiamo fatto. È rinata”.

osso

I titoli di testa presero vita: la produzione, la regia, la sponsorizzazione del Fatti Bene Fratelli e, infine gli attori. Strinsi i pugni.
Il volto di mia madre si rivolgeva alla camera e incidentalmente mi fissava, declamando oscena il proprio piacere, mentre un nerboruto dopato la pompava alle spalle. Con il suo avanti e indietro segnava il tempo come un metronomo della voluttà. Sentii, provando orrore, un’attrazione ancestrale per quella scena o magari era semplice sollievo nel vederla stare bene: si susseguirono altre immagini, altri attori, mia mamma figurava anche in una scena lesbo, chiusi gli occhi.
“Le ripeto, dove si trova mia mamma?”
Mi guardò e sorrise, di un sorriso compassionevolmente morboso che mi accoglieva facendomi sentire allo stesso tempo inadeguato.
“Lei pensa che sia tutto così facile: ha continuato a tempestarmi di mail, di dati: elaborati da eminenti dottori, illustri colleghi, va detto, come definivano quella patologia? Neuropatia cronicizzata presumibilmente causata da una patologia minore: il famigerato dito a martello.”
Mi avvicinai di qualche passo a Burloni.
“Si tratta di dati scientifici, non si scappa, non sono io che devo spiegarglielo”, la sua abbronzatura risplendeva di un candore insostenibile, mi diede delle pacche sulle sterno.
“Invidio la sua gioventù sa, ma deve capire che la scienza è come il porno: è piena di buchi e come quella è stata concepita e sperimentata da persone. È tutto così fallace, se mi consente il gioco di parole. Lei è in quella fase in cui si deve aggrappare a cose certe, a pubblicazioni scientifiche ammantate di una certa autorevolezza: ma lì dentro ci troverà solo buchi: solo delusioni, va detto. La mia esistenza era giunta a un bivio: affogare nel tedio della routine, intascare l’ennesimo sotto banco per un’operazione che avrebbe deluso tutti, oppure far compiere un passo avanti alla scienza, ibridandola con una sorta di antropologia psichica. E così ho trovato nel porno la chiave di volta per un nuovo livello di conoscenza. Sua madre, sa, ha provato ogni cosa: fisting, barebacking, anilingus, double, lesbo… ora il suo spirito riluce etereo nel mio diorama”.

Intuii, ma non compresi del tutto le parole del dottore, il cui fiato mi avvolgeva tanto era vicino. Le infermiere, con uno sguardo ancora in trance, si erano strette attorno a noi, immobili, mentre l’odore di lattice si mischiava al profumo muschiato del dottore. La miscela di quelle fragranze rievocò un ricordo lontano e doloroso.
Era la mia prima volta al luna park e c’era una giostra che scintillava possente. Rivedevo me stesso, a cavalcioni dell’unicorno meccanico rosa; lo preferii a un robot e scartai anche il trenino, mentre mio padre mi suggeriva di stare attento e di non mollare la presa, spiegandomi che quella giostra era stata concepita per ragazzi più grandi della mia età: allora avevo sei anni è mi sentivo già grande.
Poi il trenino, in prossimità della curva, non aveva rallentato, ma era deragliato.
Rividi il corpo di mio padre per terra, inerte, mentre un jingle ipnotico avvisava che il prossimo giro sarebbe stato gratuito. Io invece rimanevo aggrappato al mio unicorno con la giostra che vorticava senza requie. In seguito i medici sentenziarono che mio padre si sarebbe salvato… così non è stato. La scienza era davvero piena di buchi? Va detto. Iniziai a piangere, il dottor Burloni mi abbracciò.
“Si rilassi, andrà tutto bene.”

Fui accolto dal suo calore e contemporaneamente iniziai a percepire il respiro delle infermiere. Ero inebriato dal profumo di quelle donne discinte che a sua volta si mischiava all’odore di lattice, infine il muschiato di Burloni prevalse, insinuandosi definitivamente dentro di me.
Quindi il dottore iniziò a toccarmi, a palparmi e le ragazze lo imitarono: il dolore si scompose così in mille rivoli sempre meno percepibili. Non sentii più nulla, se non la voce greve del dottore.
“Ora dovrebbe essere pronto per il mio prossimo diorama.”

Testo Marco Giono
Illustrazione Osso

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