1

Già le due del pomeriggio… Mi sforzo di mettere a fuoco lo schermo del piccì, mentre le mie reti neuronali tentano di ripescare dalla semincoscienza postprandiale frammenti significativi di passato, da inserire in una versione aggiornata del mio curriculum vitae… Ma, all’improvviso, BEEEAAAAAZZZ!
Detesto il suono del campanello di questa casa!, penso mentre guado il disordine del soggiorno con passi intorpiditi. Pazienza, questa è una sistemazione provvisoria.
Apro. Ecco, a differenza del campanello, i tre scalini davanti alla porta non mi dispiacciono affatto: benché la biondina che ha suonato monti tacchi pirotecnici mentre io sono in ciabatte, i gradini mi assicurano un dislivello, del quale mi avvantaggio per squadrarla. Anzi, squadrarli: è spalleggiata da un tizio più vecchio, con un’abbronzatura marrone Pantone 471, di cui il sole declina ogni responsabilità.
“Buongiorno, signora – fa partire il disco lei, spingendo il chewing-gum tra i molari e la guancia – Stiamo facendo delle dimostrazioni del nostro prodotto nel suo quartiere”.
Allarme! Si richiede immediata uscita di tutte le aree cerebrali dallo stand-by. Cerco di scansionare la scena per capire quale inutile oggetto o servizio – adesso chiamano prodotto qualsiasi cosa – vorrebbero intrufolarmi in casa quei due: noto dei moduli in mano alla ragazza e una grossa borsa verde posata in terra… Ma intanto l’informazione che cerco arriva, spontanea e banalissima:
“Lei ha un aspirapolvere?”, chiede la biondina.
“Sì – rispondo – ma sto cercando di sbarazzarmene”.
Il tizio non nasconde il suo entusiasmo: “Non funziona? Di che marca è?”, interloquisce, pronto a denigrare la concorrenza.
“Per funzionare, funziona – replico io – Però ultimamente mi sono ricordata che mia nonna non aveva l’aspirapolvere, eppure casa sua era sempre pulita”.
La ragazzetta, spiazzata, dice: “Ah… Davvero?… Ma…”.
Prima che ritrovi il filo del discorso, le spiego, con finta benevolenza: “Mia nonna sui pavimenti e sul parquet passava uno straccio di lana e dava la cera con la galera”.
Lei sta per chiedermi che cosa c’entri la cera con la galera, ma il suo accompagnatore è più scaltro: “Signora, ma una volta mica c’era tutta la polvere di adesso, con i termosifoni e il traffico…”
“Il traffico dei camion che trasportano inutili aspirapolvere, rilasciando veleni nell’aria”, ribatto io.
“Eh, i veleni – dice lui, sbirciando però la porta del mio vicino – adesso ci sono i filtri…”
“Dice i filtri degli aspirapolvere o quelli dei camion? Guardi che i filtri antiparticolato per i diesel non servono a niente, anzi. Riducono le polveri a dimensioni più fini, quindi più nocive.”
Lui, che probabilmente va sotto il nome di tutor, mi chiede: “Lei è una bio…  un’eco… un’analista, sì, insomma, fa le analisi nei laboratori?”
“Purtroppo no –  rispondo – Però, ora che dice così, mi viene in mente che devo bagnare i miei germogli di erba medica. Scusatemi, buona giornata”.
 2

BEEEEAAAAAZZ! Lo stridore da sega elettrica impazzita che fa il campanello di questa casa trancia in due un sabato mattina autunnale.
Uffa! Poso l’aspirapolvere (di cui, malgrado i buoni propositi, non mi sono ancora sbarazzata) e mi precipito alla porta, temendo un secondo BEEAZZZ! che non arriva.
Invece qualcuno fuori afferra la maniglia e la scuote vigorosamente. Aprendo mi tiro quasi addosso una donna un po’ più vecchia di me, o forse un po’ più  giovane; sicuramente più grossa. Dietro di lei, anzi, sotto, ai piedi dei tre scalini, c’è una bambina sui dieci anni, con un giubbottino verde.
“È lei l’assistente sociale?”, chiede la donna, in tono accusatorio, mentre scende un gradino.
“No”, rispondo io.
Ho sempre pensato che l’assistente sociale sia una professione utile, per la quale mi piacerebbe essermi qualificata… Ma forse è  d’obbligo un’abitazione con le porte robuste.
La donna mi fissa, sospettosa e aggressiva: “Ci hanno detto: ‘vicino alle scuole, dove c’è il cancello verde’, non è vero?”, dice.
Guarda la bambina sollecitando una sua conferma, ma lei si volta dall’altra parte: “Non è qui, te l’avevo detto”, mormora.
Soprassiedo sul fatto che casa mia non è vicina alle scuole e sulla totale assenza di cancelli verdi nei dintorni, e con pacatezza formulo un’ipotesi abbastanza fondata su dove potrebbe essere la casa che cercano, all’altro capo della strada in cui – temporaneamente – abito.
La signora si convince e retrocede, mentre la bambina mi ringrazia.
“Ma di niente”, dico, e lo penso: non ho fatto proprio niente. Salutano, si allontanano; la bambina tiene la madre per mano.
Io chiudo lentamente la porta. È robusta, è una porta blindata. Le porte delle case sono tutte così, ormai: robuste, per tenere al suo posto, da una parte e dall’altra, l’umanità, che è fragile.
“E offrire un caffè a quella signora, eh?”, domando alla porta, come se fosse colpa sua, se non l’ho fatto. “O almeno un biscotto alla bambina? Sarà per un’altra volta, già… Non ce l’hai proprio – dico alla porta – la stoffa dell’assistente sociale”.
3
BEAAAAAAAAAAAZZ! BEAAAAAAAAAAAAAZZ! Suonano a lungo, due volte di fila, mentre sto leggendo un articolo molto interessante sull’invasione dei pesci siluro nei fiumi italiani.
Faccio venire giù l’acqua e venir su le braghe e scendo di corsa al piano di sotto: sono stufa marcia di queste scale e del maledetto campanello. Ma fuori non c’è nessuno.
Il fenomeno si ripete ancora, e poi ancora, a distanza di pochi minuti. Ragazzacci, mi hanno pure appiccicato sulla porta quelle schifose pseudostelle filanti che sembrano chewing-gum. È Carnevale, vabbè… Ma se fossi la loro madre… Invece no, non sono madre di nessuno.
4

BEAAZZ! Stavolta nel sole di giugno oltre la soglia c’è un giovanotto davvero carino, che tra qualche anno si pentirà di essersi rovinato naso, labbra e sopracciglia con i piercing.
“Buongiorno, signora. Sto facendo un giro dei nostri clienti per lasciare a tutti un omaggio. Lei non è ancora nostra cliente, ma se lo diventa acquistando tre prodotti, l’omaggio lo diamo anche a Lei.”
Do ut des”, annuisco io.
“No, sono della Bofrost – risponde lui – Conosce i nostri surgelati? Li consegniamo a domicilio tutte le settimane. Questo è il nostro catalogo”, dice porgendomelo.
“Se compra tre prodotti, le regaliamo una pizza.”
“Grazie, ma non uso prodotti surgelati.”
“Ma come signora? Per esempio, il pesce?”
“Sono vegetariana.”
“Ah… Certo… Ma… E le verdure fuori stagione?”
“Se sono fuori stagione, non sono da mangiare. Io compro quelle fresche, al mercato, dai contadini.”
E, annoto mentalmente, nella mia prossima casa troverò anche il tempo di coltivare l’orto.
Lui ridacchia e sfoglia il catalogo che ho rifiutato, alla ricerca di qualche tentazione irresistibile. Poverino, probabilmente è un precario della grande distribuzione surgelata, e forse se acquistassi i prodotti gli darebbero una commissione, però ho il freezer pieno di fagioli e piselli comprati dai contadini e sgranati da me, gli unici ortaggi che mangio fuori stagione. I surgelati suoi proprio non ci stanno. Che poi il freezer è come l’aspirapolvere: se ne potrebbe fare a meno: mia nonna, per dire, non l’ha mai avuto: anche i legumi, li faceva seccare…
“E i dolci, signora? I gelati? Lo mangerà bene un gelato, in una giornata calda come questa, che viene voglia di mettersi a dorso nudo.”
“Mi scusi, si dice a torso nudo. Torso, non dorso. Il torso è il busto, il torace. Quando fa caldo, non è che uno va in giro con la schiena nuda e davanti coperto, no?”
“Ah… – ansima lui, sembra improvvisamente esangue e privo di energia – C’è sempre da imparare.. Lei è una professoressa?”.
“Purtroppo no.”
“Ha l’aria di un’insegnante.”
Me lo dicono spesso e non suona quasi mai come un complimento. Peccato, penso invece io: è una carriera che ho scartato, stupidamente. Non mi piaceva l’idea di dare i voti o i giudizi, perché ho visto tanti insegnanti dare dei voti o dei giudizi sbagliati… Però correggere gli errori, quello sì, non posso farne a meno. Gli errori degli altri, s’intende.

 5
BEEEAAZZ!
Chi diavolo sarà?
Sto asciugando il pavimento di cucina su cui è finita parte dell’acqua della pasta che ho scolato.
‘Non molto portata per i lavori manuali, ma umile e volonterosa’, inserisco mentalmente nel curriculum vitae,  mentre vado alla porta con lo straccio in mano.
Fuori ci sono due donne di mezza età, la più giovane di fianchi larghi e gonna pendula e la più anziana dotata dei tipici occhiali, spessi di lenti e di montatura, per radiografare i peccatori. Dovevo immaginarlo: in una giornata come questa, che fa un freddo cane e sui marciapiedi si scivola per la neve ghiacciata, soltanto la fede può spingere qualcuno ad andare in giro a suonare i campanelli. La giovane ha in mano una cartellina, mentre l’altra brandisce le copie della rivista “Svegliatevi!”.
L’avete mai sfogliato, quel giornalino? Io sì, ed è un po’ diverso da come ci si aspetterebbe. Ci sono articoli su temi d’attualità, per esempio sull’uso dei social network, che potrebbero stare su qualsiasi altra rivista, se non fosse per il fatto che un suggerimento come “non postate informazioni che potrebbero favorire la violazione della vostra privacy” è seguito dalla citazione Proverbi 11:13.
Mah. Però, a pensarci su, i Proverbi biblici sono un po’ dei tweet… Poi ci sono i quesiti dei lettori, che chiedono che cosa pensi Dio di questa o quella cosa.
Per esempio, nel numero che ho sbirciato io, in un bar dove i testimoni di G. lasciano sempre una copia, un lettore chiedeva: “Che cosa dice la Bibbia del masticare noci di betel?”
Seguiva la risposta della redazione, fondata su un’abbondante serie di rimandi a versetti della Bibbia, da cui si desumeva la sfavorevole opinione di Dio sulla masticazione di noci di betel. La cosa strana è che nessuna di queste spiegazioni richiamava il fatto che betel in ebraico significa “casa di Dio”, come ho scoperto cercando su Internet. Undicesimo: non masticherai la casa di Dio.
Mentre le testimoni di Geova, due scalini più giù, perorano un loro breve accesso alla mia provvisoria dimora terrena (sul “provvisoria” concordo assolutamente), penso che vorrei proprio conoscere il giudizio di Dio su tante cose: per esempio sugli aspirapolvere, sulle stelle filanti di gomma e sui surgelati, e se consideri riprovevole mangiare verdura fuori stagione. Quando da bambina andavo – molto di malavoglia – al catechismo, mi avevano spiegato che Dio preferiva Abele a Caino, perché Abele gli donava le sue primizie, mentre il fratello solo frutta marcia… E questo, forzandolo un po’, suona a favore della mia tesi, ossia contro la verdura fuori stagione. Però so che certi teologi sostengono che no, che Dio preferiva Abele e basta, indipendentemente dal grado di maturazione della frutta, perché anche Dio ha le Sue simpatie…

Le testimoni di Geova, sorridendo, insistono e io quasi quasi le farei entrare: effettivamente perdiamo troppo tempo dietro alle faccende mondane. Io vorrei fermarmi a parlare di Dio, anzi no: a tacere di Dio. Sedere un po’ insieme in silenzio e ogni tanto annuire, ammiccare, per significare. C’è, c’è, Dio c’è…
Forse, in un diverso contesto religioso, sarei stata una buona guida spirituale…
Purtroppo è chiaro che se lasciassi entrare le due signore non mediteremmo in silenzio, anzi. Per cui agito lo straccio bagnato con paroline mozze, in modo che per conto loro, senza che io dica falsa testimonianza, si raffigurino un allagamento della cucina appena occorso: non il diluvio universale, ma poco ci manca. Le due donne, di fronte a una piaga simile, scivolano giù dalle vette spirituali e si ritirano, offrendomi tutta la loro comprensione di donne mortali condannate alla fatica…
“Eh, noi povere casalinghe…”, dice tra i saluti la più anziana, ammansita.
Non glielo dico, ma non sono una casalinga. Mai avuta quella vocazione lì.

6  
BEEEEAAAZZZ!
Gesù, questo campanello è una vera penitenza. Ma poi, all’ora di cena…
Fuori è ancora chiaro, in questo scorcio d’estate. C’è un’auto ferma, il conducente a bordo tiene d’occhio  la donna con il passeggino ferma sotto i gradini.
Sul passeggino c’è un bimbo sui due anni o meno.
La madre mi considera, perplessa: “Buonasera. È Lei che conosce il sistema per mandare via i vermi dei bambini?”.
No, mi dispiace, non sono io. È la mia vicina.
“Suoni alla porta accanto”, dico.
Mi ha accennato, la mia vicina, a questa sua abilità. Non mi ricordo esattamente come funzioni, anche perché la spiegazione è stata evasiva: si tratta di una pratica magica da non divulgare al primo che capita. C’entravano un bicchiere d’acqua e del filo… O erano capelli del bambino?  Eh, essere una maga, sì, che mi sarebbe piaciuto! Però forse per diventare naturopata sarei ancora in tempo, con qualche corso…
7
Capita a tutti, prima o poi, di suonare il campanello sbagliato.
Din don.
Il signor Contini, distinto vedovo cinquantaseienne, posò la tazzina e andò ad aprìre.
Sul pianerottolo c’erano due ragazze sui vent’anni, una bionda e una bruna.
“Buonasera… Ci scusi per l’ora, sappiamo che è un po’ tardi…”, esordì un po’ imbarazzata quella che pareva la più grande, la mora. Erano, in effetti, le nove di sera passate.
“Abbiamo trovato questo piccione”, disse nervosa la biondina.
“Ah…”, fece il signor Contini, notando con un certo stupore che in effetti la ragazza teneva tra le mani un piccione.
“Non riesce a volare”, aggiunse con enfasi la brunetta.
“Oh…”, non trovò di meglio da dire il signor Contini fissando l’uccello.
Gli passò per la mente che forse il torpore della digestione aveva avuto la meglio: forse stava sognando un sogno che, oddio, avrebbe anche potuto prendere una piega osée.
“Siamo scese a fare una passeggiata dopo cena e l’abbiamo trovato nel parco qui davanti”, disse la mora, e in quel momento il signor Contini si ricordò di averla già incontrata in ascensore: massì, le due ragazze erano le figlie dei nuovi inquilini del terzo piano! Viste così, fuggevolmente, sino a quel momento gli erano parse due ragazze normali, per bene…
“Non ci sembra che sia ferito, forse ha soltanto battuto la testa”, aggiunse la mora.
“Forse l’hanno investito”, ipotizzò la più giovane, protendendo il piccione verso il signor Contini, perché potesse vederlo meglio.
“Eh… Può darsi”, disse il signor Contini, che voleva essere gentile con le nuove vicine, ritraendosi tuttavia un po’. Lo sanno tutti che i piccioni portano le malattie, ma quelle due non sembravano curarsene. Anzi, al suo atteggiamento cauto sembrarono spazientirsi lievemente.
“Se lo lasciamo ai giardini, ora che viene buio qualche gatto potrebbe aggredirlo”, disse la bionda come a prospettare un ovvio pericolo sulla cui serietà il signor Contini non poteva che concordare.
“O qualche cane”, completò la casistica dei rischi la sorella.
“Già… Ma… Io… Se volete accomodarvi… Ho giusto finito di cenare… Posso offrirvi un caffè?”
“Nooo, si figuri! – fu la risposta che suonò quasi scandalizzata – Possiamo aspettare o tornare tra un po’, allora”.
“Altrimenti, se non può stasera, glielo riportiamo domani mattina”, disse la mora, con l’aria di aspettarsi che questo rinvio fosse doverosamente respinto.
Il signor Contini si chiese se il condominio in cui dimorava da oltre trent’anni non stesse diventando un manicomio femminile. Al primo piano del palazzo abitava già una coppia di donne, madre e figlia, che litigavano con gran clamore specialmente verso le tre di notte; e adesso queste due nuove arrivate che insistevano a pretendere la sua attenzione per un piccione…
“Certo, possiamo tornare domani. Ma se potesse dargli almeno un’occhiatina stasera… Nel caso abbia qualche ferita nascosta”, disse la bionda..
“Io? Ma perché? Credo che sarebbe meglio portarlo da un veterinario, se  proprio volete”, suggerì un po’ seccamente il signor Contini.
“Ah! – esclamarono in coro le due ragazze, stupite – Ma lei non è un veterinario?”
“No…”, rispose altrettanto stupito e vagamente offeso il signor Contini.
“Ah, noi credevamo…”, balbettò la bruna, rendendosi improvvisamente conto che i cinguettii di canarini dietro la porta del signor Contini e due o tre signore con cagnetti viste entrare in casa sua un paio di volte non dimostravano inconfutabilmente che fosse un veterinario. Però, un momento: c’era la targhetta sulla porta! Dott. V.rio Contini…
“Ah, no – sorrise lui alzando le sopracciglia con sussiego – V. RIO sta per Vittorio, è il mio nome di battesimo; e quanto al dott., sono un commercialista”.

Quella volta, mia sorella e io ci eravamo congedate con molte scuse e salamelecchi. Certo, eravamo state noi a equivocare, per cui avevamo aspettato di essere al pianterreno per insultare il vecchio balordo: e allora se uno si chiama Pierfrancesco che cosa scrive sul campanello? P.esco? e Federico: F.ico? Finché ci era venuta la ridarella, e avevamo riso di lì fino al parco, dove a malincuore avevamo abbandonato il povero piccione al suo destino: non potevamo tenerlo, nella nostra casa piena di gatti.
Peccato.
Il fatto è che da bambina sognavo di diventare una veterinaria e all’epoca di quello squillo di campanello forse sarei ancora stata in tempo per intraprendere quella strada.
Invece, niente.

Testo: Elena Alissa Sargiotto
Immagini: Marta Sorte

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