Padre Giorgio Di Gregorio ammirò per un attimo il cielo della bella serata autunnale che si stava delineando. L’acqua limpida e chiara, placida, inzuppava i suoi sandali di cuoio marrone. Amava mettere i piedi a mollo, lo faceva sentire parte di due universi distinti e costretti a vicenda: l’umano mondo, di terra, erba e vento con il mondo sottostante e occulto del laghetto, nel bel mezzo del suo adorato giardino. Serrò la bocca in segno di rispetto al proseguimento della preghiera, lo sguardo basso pieno di rammarico. I pesci rossi rimbalzavano tra di loro come biglie impazienti di ricevere il loro pasto serale.

Ci teneva molto Padre Di Gregorio al suo giardino, cosparso di oleandri e bocche di leone, gelsomini e lavanda. La piccola residenza si trovava in un punto strategico del territorio campagnolo, a pochi chilometri dal paese, dove il sole della prima mattina strusciava freddo gli steli d’erba ancora avvolti dall’umidità e il tramonto era maestoso e possente, un re d’altri tempi morti, come quelli delle sue infinite letture prima del sonno al lume della candela ormai consumata. E tra il salice piangente e il roseto il laghetto koi si espandeva sulla piana landa privata del nostro fratello pastore. Era la decima koi nel corso della settimana che era saltata fuori dall’acqua, con un preciso slancio atletico, alla ricerca del duro suolo per andarci a crepare.
L’ultima era stata una bellissima Shiro Bekko di una bianchezza prodigiosa, unica superstite del suo personale allevamento. L’aveva trovata rinsecchita e per metà mangiata da un airone vicino ai bassi cespugli che circondavano il laghetto. Il ritrovamento avvenne poco dopo la messa domenicale: nel giorno del Signore la vita della sua carpa era stata brutalmente confiscata per qualche ragione misteriosa. E proprio ora stava celebrando l’estremo saluto che si concede alle anime pure. Non doveva accadere, non sapeva come risolverla, era peggio di una parata di seppuku. E proprio oggi che non ci vedeva più dalla fame e che era la giornata perfetta per il rito.

Era sempre stato un uomo di forti principi di fede, seppur accecato da un innato scetticismo nei confronti di tutti gli aspetti etico morali che spingevano a forme di tolleranza verso diversi Credo, se non per un languido tornaconto personale.
“La spiritualità dei porci”, aveva detto uno una volta.
Difatti accadde che, nel periodo del fioretto, poggiato ad un tavolo nella piadineria di Parco San Giovanni, pochi metri distante dalla chiesa, incontrò un impomatato uomo orientale dall’aspetto polveroso e poco incline al saluto aperto, solito della cultura occidentale. Takayuki si faceva chiamare.
Lo disse solo una volta presentandosi a Padre Di Gregorio, a bassa voce, quasi borbottandolo, come se il suo nome appartenesse a un linguaggio disdicevole e colorito o fosse protagonista di una segretezza sconcia.
“I suoi occhi si muovono più delle mani Padre – disse in perfetto italiano – E tacciono allo stesso modo”. Con una sottile rotazione del polso lo invitò a sedersi al suo fianco. Mordicchiava uno stuzzicadenti con una nota smaliziata, inarcando più volte le sopracciglia e mettendo in risalto il grande neo informe sulla fronte. I due parlarono a lungo dei temi più disparati e futili, quelli imposti da una conversazione sfuggente e prossima al dimenticatoio. Ma c’era qualcosa nei modi dell’ometto che indisponeva parecchio Padre Di Gregorio e che, in egual misura, lo spingeva a prestargli attentamente ascolto.
Che fosse per il forte carisma velato o il fatto che divagava sulla sua professione, ciò ipnotizzò presto l’anziano parroco. Finì che le chiacchiere virarono verso la bellezza di certe tenute pregiate nelle campagne circostanti e all’estrema eleganza dei loro giardini. Padre Di Gregorio non poté certo trattenersi, pavoneggiandosi un minimo, a sottolineare lo stato del suo splendido laghetto koi. Alla premura che ci dedicava ogni giorno: dai sali per la pulizia ai più variegati meccanismi di filtraggio delle impurità.
Le mani di Takayuki tremarono un poco e non nascose una certa sorpresa leccandosi più volte le labbra screpolate.
“Lei è certo di conoscere l’immenso potenziale che risiede tra le sue mura?”, disse leggermente balbettante l’ometto.
Non mi dilungherò sulle divagazioni a sfondo filosofico e teologico che avvennero in seguito. Mi basterà dire che secondo un antico costume del Sol Levante la carne di koi era considerata pregiata oltre che sacra, e che poteva innalzare il fortunato a una visione assoluta della propria spiritualità. Mentre mangiare i loro occhi, poco prima di una celebrazione importante, concedeva ricchezza e prosperità. “Cosa molto utile per la Santa Madre Chiesa. Eh Padre?”
Inutile precisare che la prima reazione del parroco, nonostante l’esitazione, fu di disgusto e raccapriccio. “Mangiare le mie koi? Ma con che animale sto passando il mio tempo?”
E detto ciò si alzò stizzito per tornarsene ai suoi doveri.
“Ma si ricordi Padre! – non si diede per vinto Takayuki – Le koi sono portatrici di grandi benefici. Ma possono attrarre facilmente il male, se si cade in tentazione… Ma questo non sarà un suo problema. Eh Padre?”
Senza voltarsi Padre Giorgio Di Gregorio imboccò il vicolo e scomparve.

Ed eccolo qui, che dopo massimo qualche giorno aveva ceduto alla vocina suadente di Takayuki. Era un uomo vizioso, il prete. La prima koi era una bella Narumi Asagi dalle forme sinuose e di un colore blu intenso, che spesso la mimetizzava al basso fondale del laghetto. La prese, in bilico sul ponticello di legno rosso, con un retino da pesca professionale in fibra di nylon, la colpì con una mazzetta e la sera la sfilettò e si cibò delle sue carni. “Categoricamente cruda”, come gli era stato detto.
Non sapeva spiegarselo, ma alla fine del suo silenzioso pasto, quando decise di coricarsi, strani sogni lo strinsero durante la notte e irrequieti volti deformi gli indicarono corridoi oblunghi che conducevano oltre una luce densa e meravigliosa. Si svegliò così col desiderio di giungere alla fine di quei corridoi per scoprirne il segreto. Decise di far crescere le koi di una lunghezza massima di 30 cm e di cibarsene con una cadenza di quattro mesi, così da permettere a quelle più piccole di crescere e procreare a loro volta. Nessuna koi si salvava dalla voracità di Padre Di Gregorio, che nel frattempo aveva iniziato ad apprezzarne l’inusuale sapore. Tutte tranne la Belzebù. Così aveva chiamato quella carpa che tanto lo inquietava. Era una comune Inazuma Kohaku bianca, con una grande macchia rossa a forma di corna sulla testa. Nata poco dopo l’avvio del suo rituale, la Belzebù era cresciuta a velocità doppia rispetto alle sue coetanee dimostrandosi molto più insaziabile e scattante. Il nome gli venne d’istinto: Belzebù, come il demone dell’ingordigia. I suoi occhi erano due ovali cristallini, senza pupille, come affetti da cecità, e mentre nuotava le koi più giovani seguivano la sua scia, proprio a pelo dell’acqua. La superstizione di Padre Di Gregorio era stata un motivo più che valido per tenersi alla larga da quella bestia. Ma la situazione era grave: da mesi ormai era a secco e a stento riusciva a controllare il desiderio che provava nell’addentare quella prelibata polpa. Oltre al fatto che l’ultima volta era giunto a pochi metri alla fine del lungo percorso e alla conoscenza spirituale che tanto agognava. Belzebù si sporse un minimo fuori dall’acqua, boccheggiando, gli occhi persi nel nulla sembravano voler scrutare ogni angolo dell’anima di Padre Di Gregorio. Un attimo, nessuna esitazione, e senza raziocinio nella più completa disperazione, il pastore colpì in testa la koi, uccidendola. Mentre il corpo galleggiava sul pelo della superficie, gli occhi acquisirono una chiarezza ancor più innaturale, rovesciandosi verso quelli del suo carnefice, muti e terribili, mentre un lungo e leggero anelito, come un sospiro, vibrò nell’aria. Prese con entrambe le mani la grossa carpa di circa 50 cm e la poggiò sul tavolo della cucina, pulendola minuziosamente. Con un coltello tranciò la testa e ne tolse gli occhi con una delicata pressione. Nella cucina c’era una grande credenza, che fungeva da dispensa, colma di vasetti di vetro con occhi di koi sotto spirito. Alcuni erano pieni, altri ancora vuoti. Gli occhi levitavano nel fluido con una certa armonia: compivano il giro del recipiente per poi tornare al punto di partenza. Padre Di Gregorio prese gli occhi di Belzebù e li abbandonò dentro al primo contenitore, per poi chiudere la credenza e non pensarci più. Tornò al tavolo e tolse tutte le lische, la pulì ben bene e la tagliò in piccole strisce su una battilarda. Si versò un goccio di bourbon e si sedette comodo. Con l’indice e il pollice prese la prima striscia di carne e se la fece scivolare lungo l’esofago, in un sol boccone. Il pasto venne consumato lentamente, come concerne a un vero rituale. Ma era un pasto disturbato da un labile suono di acqua in sottofondo, come basse onde che colpiscono una riva. Continuò a masticare, fissando il crocifisso sulla parete di fronte a lui e cercando di non guardare verso la credenza, consapevole della provenienza del suono. I denti stringevano a ogni morso, strappavano, laceravano. Il Padre iniziò a sudare e a grattarsi convulsamente il mento. Il suono persisteva e il gorgoglio della saliva a ogni ingurgito creava una melodia scabrosa. Era deliziosa, sopraffina, quella carpa. Si paralizzò in uno stato catatonico, orgasmico, di puro piacere. Fino a quando le sue mani toccarono il legno liscio e vuoto della battilarda. Guardò la credenza chiusa ed era sicuro, ve lo avrebbe potuto raccontare, che quegli occhi di koi lo stessero osservando con una certa bramosia.
“No! Ma che… No!”, scalpitò il vecchio prete.
“Che volete?” Urlò alla credenza. “State zitti! Zitti! Non osate giudicarmi, vomitevoli creature!”
Il suono di onde continuò implacabile e un viscido fluido, tipo bava, colò sulla sua barba. Si sfiorò appena e si strofinò le dita: era bile. Si strinse con una mano le tempie e scattò, colpendo con un pugno la credenza e aprendo una breccia nel vetro intarsiato. Ed eccolo lì, l’occhio di Belzebù, immobile.
“No… Bestia!”
Urlò Padre Di Gregorio. E la fame cresceva, una fame immonda e demente. Non poteva smettere ora. Uscì di casa, inciampando più volte nel giardino. Era sera ormai e il buio era assoluto, se non per il lampione posto presso il laghetto. Prese in mano il retino da pesca e si immerse all’interno dell’acqua fredda fino alle ginocchia.
“Venite! Venite qui!”, sibilava.
Prese due giovani carpe e se le mangiò lì sul posto, staccandogli prima la testa e trucidando il resto. Violentemente mise ancora il retino sott’acqua, in cerca delle sue prede. Poi si fermò di colpo, il braccio sinistro gli formicolava, il respiro affannato, le gambe cedevoli, la vista appannata. Padre Di Gregorio cadde nel laghetto a faccia in giù. Cercò di trovare le forze per risalire, ma non ce la fece. Restò agonizzante, affogato in mezzo metro d’acqua. Ed era sicuro, poco prima di andarsene, che in quell’oscurità la breccia presente alla fine di quei tunnel fosse prossima. Che finalmente sarebbe riuscito a varcarla. Che sarebbe riuscito a raccontare al suo gregge l’immenso onore di tale scoperta. Morì con un sorriso da ebete.

I mesi passarono e le diatribe tra i nipoti per l’eredità sembravano non trovare un punto d’incontro. Nessuno pensava al laghetto koi del defunto, se non Ernesto, un contadino magro e docile che abitava a pochi metri dalla tenuta del prete. Era vecchio, ma si era preso la briga di sfamare quei bei pesci colorati, vivendo l’impegno come un momento di pace e di silenzio: un’alternativa alla sua solitudine. Si chinava sulle ginocchia ogni volta e prima di buttare il mangime li chiamava a voce. Aveva imparato ad amarle tutte, ognuna secondo la sua particolarità. Tutte, tranne una: era una piccola Inazuma Kohaku bianca, con una grande macchia rossa a forma di corna sulla testa. Restava nascosta sul fondale sopra alla ghiaia e non smetteva un attimo di osservarlo con quegli occhietti chiari, quasi trasparenti. Ernesto a sua volta la fissava per lunghi istanti, allontanandosi poi dal laghetto con un senso di smarrimento e di pesantezza nel cuore, lasciando la koi a riprendere il suo nuoto a pelo dell’acqua. Placida.

Testo: Brian Freschi
Immagine: artume

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