Io lo sapevo che dall’altra parte del muro c’era una bambina come me. La sentivo battere con i pugni dietro una parete di camera mia, e i colpi erano a volte così tenui, altre così insistenti, e nel cuore della notte continuavano senza che potessi farci niente, se non sedere in mezzo al letto respirando forte.
Per giorni tenni tutto ciò come un segreto. E quando tornavo da scuola, appena finito di pranzare, mi chiudevo in camera e non uscivo più, dimenticando che là fuori si espandevano altre stanze, e le scale, i sentieri del giardino condominiale, la piazza colma di biciclette sotto il sole. Mi sedevo sul letto, e osservavo la carta da parati azzurrina costellata da farfalle dorate, e vedevo e sentivo insieme, senza poter distinguere il vedere dal sentire, la carta da parati come incresparsi sotto i colpi che una bambina sconosciuta assestava dall’altra parte del muro di camera mia.
Un pomeriggio, dopo chissà quante ore, fissando il muro, riuscii a immaginare questa bambina. Era magrolina, troppo alta per la sua età. Aveva le spalle un po’ curve, le trecce nere, le orecchie a sventola. Mi somigliava in tutto, ed era sola in una stanza buia, e dava quei colpi al muro richiamando la mia attenzione, come se non facesse altro che bussare a una porta che io non vedevo né potevo aprire.
Ma appena riuscii a immaginarla, mi scrollai di dosso la paura. E scesi dal letto, filai sulle punte dei piedi, schiacciai un orecchio al muro così da sentire, nell’intervallo vuoto tra un colpo e l’altro, un sospiro, una voce, una cadenza di pianto.
Non sentii nulla, questo mi spaventò ulteriormente. E corsi in cucina, afferrai mia madre per la mano, la trascinai in camera mia, e dissi mamma, mamma, questi colpi sul muro, li senti, li senti, come si fa?
Mia madre mi guardò stranita. Anche provandoci, disse che non sentiva nulla. Sotto una miriade di colpi sul muro sempre più veloci e persistenti, come una pioggia che non finiva di cadere, io non dissi della bambina come me, ma dovetti spalancare le labbra scoprendo i dentini. Le mie guance si scaldarono all’istante. Mia madre mi posò una mano sulla fronte. Constatando che non era febbre, ma uno dei miei soliti accessi, mia madre mi assicurò che tutto ciò che sentivo sarebbe passato, che ogni cosa passa sempre.
Allora la spinsi con urgenza verso la parete di camera mia, dove le farfalle della carta da parati sussultavano sotto i colpi più forti. Mamma, mamma, ora li senti?, dissi quasi alle lacrime.
Mia madre fece di nuovo spallucce, ma vedendomi addolorata, per non lasciare nulla di intentato, accostò la parete, strinse un orecchio al muro, trattenne il respiro – e nel silenzio quei colpi rintoccarono come folli campane.
Li senti, li senti?, dissi con voce di pianto. Mia madre si staccò dal muro e venne da me. Disse che avrebbe voluto darmi ragione, ma che non c’era niente da sentire. Dietro quella parete c’era il vuoto. Da sempre abitavamo al quarto piano di un palazzo che saliva dritto al cielo.
Io dissi subito che dall’altra parte della parete c’era una stanza buia. Mia madre questa volta non rispose, levò le mani in aria allargando le dita, poi uscì da camera mia, lasciandomi sola sotto quella tempesta di colpi sul muro.
Per essere certa che non fosse una mia invenzione, allungai una mano, e attaccai il palmo alla parete, e sentii il muro palpitare sotto i colpi, e proprio allora la voce di mia madre venne a prendermi, e disse di correre subito in cucina, che c’era una sorpresa per me – e io, non per accontentare mia madre, ma per sfuggire ai molteplici richiami della bambina, filai per il corridoio, che mi sembrò lunghissimo, come se non finisse più, con quei colpi che rimbombavano perfino lì.
Mia madre mi accolse in cucina così raggiante. Un piatto tutto per me scintillava sul tavolo. C’erano le ciliegie nere, le albicocche snocciolate e aperte in due, l’anguria fredda tagliata a cubetti. Mangia che passa tutto, disse mia madre.
Sedetti a tavola, ma come mia madre mi allungò il piatto, ancora più nauseata lo scostai da me, sebbene quella fosse la mia frutta preferita.
Veramente non senti i colpi sul muro?, dissi guardando mia madre con una serietà inedita, che per la prima volta mi sbrecciò una ruga sulla fronte.
Mia madre mi fissò gelidamente, io cominciai a tremare. Ma come tutte le volte in cui mi agitavo, poiché io mi agitavo spesso, e serravo i pugni, e diventavo rossa, e gridavo battendo i piedi, e a scuola imponevo le mie ragioni sugli altri bambini usando le mani, mia madre fece il giro del tavolo, si portò alle mie spalle, e tirandomi appena i capelli sciolse le mie trecce nere dagli elastici di un verde fosforescente.
Io non so quale incantesimo mia madre allargasse su di me. Perché, davvero, quando ero agitata, anche nei casi in cui tremavo tutta, bastava che mia madre mi sciogliesse i capelli e ne facesse poi nuove trecce perché io mi calmassi, mi ricomponessi, divenissi la bambina che tutti si aspettavano, con quel sorriso smaliziato su cui si aprivano le allegre finestrelle di due dentini mancanti, anche se questa volta le cose andarono diversamente, soprattutto perché quei colpi sul muro non finivano di rimbombare in corridoio.
Sai, dissi io, sentendo le mani di mia madre tra i capelli. Non è vero che dietro la parete di camera mia c’è il vuoto. Io lo so, lo sento. Dietro la parete di camera mia c’è una stanza buia, e dentro questa stanza buia c’è una bambina, e questa bambina è così sola, e con i pugni, giorno e notte, tutto il tempo, batte sul muro per richiamare la mia attenzione, perché vuole uscire da lì.
Come posso aiutarla, mamma?, dissi sentendo lo strattone improvviso con cui mia madre mi stirò i capelli. Perché io lo so, lo sento. Quella bambina mi somiglia tanto. E deve esserci un perché a tanta somiglianza. E allora ho pensato che la bambina che qualche mese fa doveva uscire dalla tua pancia, e che poi non è uscita, quella bambina che tu mi hai detto che avevi perso, sì, quella bambina non si è persa, ha solo sbagliato strada, e invece di uscire dalla tua pancia è finita in quella stanza buia.
Proprio così, dissi ridendo appena e tremando un po’ di più, come se le parole che mi uscivano di bocca si accavallassero sulle mie labbra senza che le potessi controllare. Mamma, la bambina nella stanza buia è la sorellina che si è persa prima di arrivare qui. Li senti tutti quei colpi sul muro? È finita in quella stanza sbagliando strada. Dobbiamo assolutamente trovare un modo per tirarla fuori da lì.
Sentii allora la mano di mia madre sulla mia guancia, e quella mano fu uno schiaffo, e quello schiaffo mi fece girare la testa, e perfino quando mia madre uscì dalla cucina lasciando i miei capelli intrecciati a metà quello schiaffo rimase su di me, perché io continuai a sentire le dita della mano di mia madre ardere sulla mia guancia anche se lei si era chiusa nella sua stanza da letto sbattendo la porta.
Quella sera, quando ci sedemmo a tavola per cena, né io né mia madre riuscimmo a dire parola. Mio padre ci guardò così scontento. Per un po’ masticò senza dire niente. Poi chiese a mia madre se fosse successo qualcosa.
Mia madre si alzò di colpo, e senza pulire le labbra con il tovagliolo, cosa che mi raccomandava ogni volta che mi alzavo da tavola, poiché tutto poteva accadere tranne che una signorina come me se ne andasse in giro con le labbra unte, mia madre ci voltò le spalle e uscì dalla cucina.
Mio padre s’irrigidì con il bicchiere in mano, ma poi, vedendo rigida anche me, allungò una mano, mi aggiustò i capelli sulla fronte. È successo qualcosa che non so?, disse mio padre fissandomi con gli occhi tristi e feroci.
Io non dissi dei colpi sul muro, né della bambina nella stanza buia, tantomeno accennai al fatto che fosse la sorellina che si era persa sbagliando strada. Guardai mio padre e dissi papà, ma quando finirò di essere sbagliata? Tu non sei sbagliata, disse mio padre. Eppure faccio cose che non vorrei, dico cose che non vorrei, dissi io. Apro la bocca e queste cose vengono da sé.
Mio padre mi guardò con gli occhi grandi. Fece per dire qualcosa, ma le sue labbra rimasero mute. Poi disse mangia, non ci pensare. Qualsiasi cosa tu abbia detto o fatto, è già passata.
Per farmi capire meglio, mio padre schioccò le dita. Senti?, disse mio padre. Ho schioccato le dita, eppure lo schiocco non c’è più. Ricordi quando tua madre stava male per la sorellina, e si graffiava le guance a sangue sedendo giorno e notte sul divano? Ricordi quando mi hai trovato dentro la tua stanza mentre parlavo da solo e facevo a pezzi la culla già pronta? Tutto passa. Anche questo è passato. Mangia, finisci di mangiare, pulisci il piatto. Tua madre verrà più tardi da te a darti un bacio sulla fronte.
Io allora mangiai fino a lucidare il piatto, e prima di alzarmi da tavola mi pulii le labbra con il tovagliolo, e poi, al contrario delle altre sere, invece di giocare a lungo, anche se non avevo sonno, mi lavai i denti, mi pettinai i capelli, infilai il pigiama, chiusi la porta, spensi la luce e mi allungai sotto le lenzuola. Aspettai così che mia madre venisse a cancellare questa giornata dalla mia fronte, usando le sue labbra come una gomma per le matite.
Ma mia madre non venne, e tanto più, al buio, i pugni di quella bambina ricominciarono a martellare il muro. Per un po’ mi girai dall’altra parte, facendo finta di non sentire. Le stavo dando la schiena, quindi quella bambina avrebbe dovuto capire da sé che non ero più disponibile ai suoi richiami.
Eppure i colpi crebbero d’intensità, e si fecero così spregiudicati, così insistenti, come se a quella bambina non le importasse nulla della situazione in cui mi aveva cacciata, al punto che io mi spazientii, mi infuriai, mi strappai dalle lenzuola, mi mossi a piedi nudi fino alla parete, e quando trovai la parete allungando le mani nel buio, cominciai a battere anch’io i pugni sul muro, gridando finiscila, lasciami stare, torna da dove sei venuta, tu non sei mia sorella, non mi vuoi bene, non si fa così.
Mio padre e mia madre spalancarono la porta, trovandomi con i pugni schiacciati sulla parete. Io dissi subito che non era colpa mia, che non volevo. Divenni così rossa che fu come se mi fossi illuminata nel buio. Un tremore esagerato s’impossessò di me, facendo crocchiare tutti gli ossicini del mio corpo.
Ma per quanto mio padre e mia madre mi abbracciarono, mi accarezzarono, e dissero tutte quelle parole, e mia madre si scusò infinitamente per avermi presa a schiaffi, promettendomi con le lacrime agli occhi che non sarebbe successo mai più, io, poi, per tutta la notte, non riuscii a prendere sonno né a trovare riparo sotto le lenzuola, perché quei colpi sul muro continuarono ad accendersi nel buio con un ritmo loro, con una cadenza loro, come se fossero le lettere di un alfabeto segreto che cercavano di organizzarsi in tante frasi di senso compiuto.
Mia madre la mattina mi fece trovare una ricca colazione. Anche mio padre mi aspettava seduto a tavola quando apparsi in cucina a piedi nudi. Mi stropicciai forte gli occhi davanti a loro due, come se quello fosse l’unico modo per chiedere scusa di questa cosa che ero io e a che a volte si avverava al di là della mia volontà.
Le mani di mia madre, abbracciandomi stretta, intenerirono all’istante la mia carne dura. Mio padre mi disse subito di scegliere il pasticcino che mi piaceva di più.
E mentre sentivo il cioccolato sciogliersi dentro di me, mia madre mi fissò, mi tenne per il mento, e come per sincerarsi che io capissi davvero, mi parlò lentamente, e disse che non dovevo preoccuparmi, che se una sorellina si era persa, un’altra sarebbe arrivata. È solo questione di tempo, disse mia madre guardando mio padre con fiducia, eppure ferocemente, come se le dovesse qualcosa. Tu intanto segna su un quaderno i nomi più belli, sarai tu a dare un nome alla nuova sorellina.
Io guardai mia madre, feci sì con la testa. Però non capii cosa volesse dire. Che c’entrava ora un’altra sorellina? Ne avevo già una, era finita per sbaglio in una stanza buia, batteva tutto il tempo con i pugni sul muro, avremmo dovuto tirarla fuori da lì prima di segnare su un quaderno il nome di una nuova sorellina.
Mi sedetti a tavola, bevvi il latte d’un fiato, ma quando mio padre mi disse prendi un altro pasticcino, io feci scattare violentemente la sedia dietro di me rimettendomi in piedi. E se fossi stata io al posto della sorellina? Mio padre e mia madre avrebbero lasciato anche me in quella stanza buia? Avrei battuto anch’io tutto il tempo i pugni sul muro senza riuscire ad attirare la loro attenzione? Era così? Era così? Veramente tutto passava senza lasciare traccia? Ci voleva così poco per dimenticare chi si voleva più bene?
Guardai allora mio padre e mia madre sorridermi con i denti bianchissimi, accendendo di una luce nuova quella domenica mattina. Per un attimo mi sembrò che avessero gli occhi più grandi, le bocche più grandi, le narici più grandi, le dita lunghe con le unghie appuntite. Scappai in camera mia come se per la prima volta mio padre e mia madre si fossero rivelati per ciò che erano, dei mostri infinitamente più spaventosi di quelli disegnati nei libri, perché loro sapevano anche tagliarsi le unghie, programmare la lavastoviglie, vestirsi eleganti, portarmi tutte le mattine a scuola guidando la macchina, assicurandosi che io entrassi davvero, nascondendo la loro vera faccia sotto tutto ciò che mi insegnavano e mi promettevano.
E una volta in camera mia, chiusi la porta, corsi alla parete su cui si avveravano i colpi della bambina. Allargai le braccia, mi incollai alla parete abbracciando il muro. E per farmi sentire, come se le mie parole potessero tradursi in una vibrazione passando da una parte all’altra, attaccai le labbra alla parete, e dissi ci penso io a te, non ti lascio lì, devo solo aspettare il momento giusto.
Da allora in poi non dissi più dei colpi sul muro a mia madre, sebbene si avverassero puntualmente ogni volta che entravo in camera mia, e riuscissi a sentirli perfino quando ero in cucina mentre mio padre guardava la partita a tutto volume. Feci le addizioni come voleva mia madre, mi lasciai fare le trecce, mi pulii le labbra con il tovagliolo quando mi alzavo da tavola, e a scuola non strappai più il grembiule a nessuno, perfino quando i bambini dicevano tutte quelle cose sulle mie orecchie a sventola. Diventai così buona. Non tremai più. Non accesi di rosso le mie guance. La cresta di nuovi dentini spuntò dove altri erano caduti, rendendo palese che ero diventata la signorina che tutti si aspettavano. Ottenni in questo modo completa giurisdizione sulla mia camera. Dovevo tenerla in ordine e lavare i pavimenti. Nessuno poteva entrarci senza il mio permesso. Era il mio regno – a mio padre e a mia madre stava bene così. E a lungo affilai la punta della fiducia che mi accordarono, come se fosse una freccia che avrei presto scoccato verso un bersaglio che loro non potevano neanche immaginare.
Un pomeriggio mia madre mi chiamò in cucina. Mi allungò su un piattino una fetta della torta di compleanno di mio padre, su cui avevo soffiato anch’io le candeline. Mi disse siediti qui, mangia la torta e non combinare guai. Esco un attimo a fare spesa, cerca di non farmi pentire di averti lasciata sola.
Io misi su una faccia seria, dissi ormai sono grande, che credi? Eppure mille raggi dorati si spansero dentro di me, e con ancora più felicità affondai il cucchiaino tra la crema e il pan di Spagna.
E appena mia madre batté la porta di casa, io mi fiondai in camera mia, e mi inginocchiai davanti al letto, mentre tutti quei colpi sul muro scoppiavano intorno a me come palloncini. Sollevai la coperta, e trovai sotto il letto quanto avevo collezionato da giorni con grande cura. Una spatola, un martello, dei chiodi, carta da giornale. Presi ogni cosa, e mi accostai alla parete azzurrina costellata di farfalle dorate. Incollai le labbra la muro, e dissi se senti rumore, non ti preoccupare. Sono io, arrivo.
Per un attimo non sentii più quei colpi, come se la bambina avesse trattenuto i pugni in aria facendo sì con la testa. Ma a quel silenzio seguirono dei colpi sul muro così eccitati e travolgenti, che io pensai che mia sorella non era piccola come me, ma che nel buio, a furia di aspettare, era cresciuta, si era fatta grande, le spalle grandi e la testa gigantesca, e avesse ormai dei pugni enormi, e io ne ebbi timore, come in chiesa davanti alle statue dei santi anneriti dall’ombra delle nicchie.
Però non persi tempo, mia madre sarebbe tornata presto. Raccolsi e portai ogni cosa davanti alla parete che mi divideva ancora per poco da mia sorella. Mi inginocchiai, presi la spatola, e la spatola mi cadde di mano per quanto ero agitata. La ripresi subito, e con la punta affilata staccai dal muro, vicino al battiscopa, una linguetta di carta azzurrina, e la strinsi tra le dita, e lentamente, aiutandomi con la spatola, tirai via la carta dalla parete, come staccando da un corpo vivo la pelle che lo rivestiva.
L’intonaco del muro si stagliò così bianco davanti a me. Per un attimo mi smarrii pensando che tutte le cose, sotto il rivestimento colorato della pelle, non essendo mai state toccate dalla luce, erano bianche come una pupilla senza iride. A maggior ragione pensai alla bambina chiusa da sempre in una stanza buia, e per non lasciarmi sopraffare dall’orrore immaginando mia sorella cieca, con i pugni enormi, la pelle e i capelli bianchissimi, stesi la carta di giornale sul pavimento, e attaccai a usare il martello, picchiando su uno dei lunghi chiodi che avevo trovato nel ripostiglio insieme a tutto il resto, così da bucare il muro.
Con che gioia picchiai sul muro. Sembrava che con tutte quelle martellate stessi rispondendo ai colpi di mia sorella, come se in qualche modo io e mia sorella stessimo già parlando fitto fitto, dicendoci tutto ciò che il muro non ci aveva permesso di dire fino a quel momento. Mia madre e mio padre mi avrebbero colmata di baci quando avrei portato quella bambina davanti a loro. Con grande orgoglio e commozione li avrei poi spinti qui per fargli vedere il buco che avevo ricavato sulla parete, mettendo in comunicazione camera mia con quella stanza buia.
Ma più picchiavo sul chiodo, più il chiodo non scalfiva il muro. E se con sprezzo lo lanciai via da me e attaccai a battere con il martello, neanche allora il muro diede il più piccolo segno di cedimento.
Impugnai il martello a due mani, presi a battere furiosamente. Gridai spostati da lì, avendo paura che il muro crollasse sotto i miei colpi e che mia sorella rimanesse schiacciata dalle macerie. Mi accesi di un rosso vermiglio per lo sforzo e la concitazione. Mai nella vita i miei gesti aderirono così adeguatamente alla mia volontà. Mio padre e mia madre avrebbero avuto la bambina che si era persa per strada finendo al buio, anche se avevano fatto di tutto per dimenticarla, non meritandola affatto, ignorando i suoi colpi sul muro, pensando già a un’altra sorellina. Quando mia sorella sarebbe stata qui con me, nonostante fosse cieca e bianchissima, e a me facessero impressione i suoi pugni enormi, io le avrei comunque insegnato a saltare la corda e a rubare i pacchetti di liquirizia al supermercato senza farsi scoprire.
Ma tutte quelle martellate rimbalzavano via dal muro come se picchiassi una superficie di granito. L’intonaco non si acciaccò nemmeno.
Disperai. Schiacciai la fronte al muro. E sentendo i colpi della bambina che mi chiamavano, che mi chiedevano conto del perché non si aprisse una breccia sul muro, fui risalita da singhiozzi così violenti che mi si scheggiarono le labbra.
In un attimo mi levai in piedi pensando a cosa fare. Mia madre non avrebbe tardato a parcheggiare nel garage condominiale e prendere l’ascensore carica di buste. Uscii dalla mia stanza, corsi in corridoio, corsi in cucina, e non mi diedi pace fino a quando i miei occhi non caddero sul piattino su cui cui stagnavano gli avanzi della torta.
E fissando il cucchiaino sporco di crema, e ricordando con quale decisione era affondato nel pan di Spagna, mi illuminai pensando che forse il chiodo e il martello non avevano funzionato contro il muro perché quelli erano strumenti che avrebbero potuto usare mio padre o mia madre, mentre io ero ancora una bambina e dovevo usare strumenti da bambina. E come acciuffai il cucchiaino, corsi in camera mia sbandierando un urlo selvaggio per il corridoio.
Davanti all’intonaco inscalfibile del muro, mi inginocchiai. Quel biancore mi risultò tremendo. Cacciai gli occhi da lì, e vidi il chiodo appuntito brillare sotto la finestra e la salma del martello irrigidirsi sul pavimento. Ogni cosa cantava la mia sconfitta, e i colpi inarrestabili sul muro ne erano l’eco.
Persi il respiro ritrovandolo poi insieme alla fede che la mia piccola età mi concedeva. Brandii il cucchiaino, e presa da un freddo improvviso, tremando smodatamente, spinsi la punta del cucchiaino sul muro, sentendo certe vene azzurrine guizzare sul dorso della mia mano.
Come se stringessi una chiave tra le dita e dovessi avviare un meccanismo sconosciuto, girai la punta del cucchiaino contro il muro, e a un tratto l’intonaco scricchiolò e una polvere granulosa e bianca precipitò sulla carta da giornale stesa a terra.
Se quello era un segno, io non aspettai altro, e con più vigore spinsi il cucchiaino, e il cucchiaino affondò nella polpa bianchissima del muro, e un gridolino mi sfuggii dalle labbra, e dissi mamma, mamma, desiderando che lei tornasse subito a casa e fosse qui con me ora che ogni cosa accadeva davvero.
Il cucchiaino attraversò il muro, e io non ebbi altro pensiero se non scavare il muro, a colpetti, a cucchiaiate, mulinando la mano dentro una tenue nuvoletta di polvere bianca che si spanse intorno a me.
Prima che me ne rendessi conto, un buco dai contorni irregolari si stagliò sul muro. E quando fuori di me, battendo i denti dalla gioia e dalla paura, aspettai che mia sorella infilasse un braccio nel buco, mostrandomi l’enorme pugno bianco con cui aveva battuto giorno e notte sul muro, cercando così di toccare me, proprio me, io che l’avevo salvata, dal buco sul muro si diffuse un fascio di luce nera.
Subito strisciai sulle ginocchia, indietreggiai. Da quel fascio di luce nera si staccò una scintilla nera, e quella scintilla nera prese a vagare nell’aria, a scalare l’aria – e più si avvicinò a me, più io mi tirai indietro.
Ma quella scintilla aveva il corpicino nero, e nere zampette sottili, e sbatteva minuscole ali nere con grande frenesia, e ronzava dolcemente girandomi attorno, come se fosse così contenta e mi facesse festa, e io mi intenerii, cercai di non avere paura, e levai il braccio, stesi le dita, e la zanzara si posò sul palmo della mia mano.
Sei tu?, dissi con voce tremante guardando la zanzara. Ma come facevi a dare quei colpi sul muro con un corpo così piccino?
La zanzara mi punse la mano, infilò il suo beccuccio appuntito dentro di me e si cibò del mio sangue, e il mio sangue doveva essere dolcissimo come la torta avanzata in cucina, poiché la zanzara non accennava a staccarsi da lì.
Mi venne voglia di accarezzarla, ma sfuggii subito alla tentazione – era così fragile e minuta che avrei finito per schiacciarla.
Chissà da quanto tempo non mangiava. Ma se era mia sorella, perché doveva essere mia sorella, e io non avevo più dubbi mentre guardavo la zanzara succhiare voracemente la dolcissima linfa che scorreva nelle mie vene, io l’avrei nutrita ogni volta che voleva. Bastava che si posasse sul palmo della mia mano quando aveva fame.
La zanzara si levò da me, e seppure appesantita dal mio sangue, volteggiandomi intorno, ronzò allegramente, come se cantasse. In quello e in altri modi mi spiegò che tutte le forme erano attributi di una sola sostanza. Noi due diventammo inseparabili.
Testo Giuseppe Zucco
Illustrazioni Cristiano Baricelli