Ci vediamo alla fermata Flaminio. L’appuntamento è alle 18, ma io arrivo con mezzora d’anticipo, per essere certo che mi trovi già lì. Il bluff funziona, perché nonostante Dalila esca dalla metro alle 18 spaccate mi chiede se aspetto da molto. Le rispondo di non preoccuparsi, spengo la sigaretta nel posacenere portatile e la invito a seguirmi. Lei propone piazza del Popolo, ma io insisto affinché mi segua in un bar isolato di via Romagnosi, in una traversa di Via Luisa di Savoia, dove solitamente a quest’ora, nei giorni feriali, non c’è nessuno, e difatti ci siamo solo Dalila e io, seduti al bar. Le chiedo cosa ordina e anticipo il cameriere, per essere sicuro di pagare io. Torno con due acque toniche, le poggio sul tavolo e accendo una sigaretta.
È più alta di quanto pensassi, proporzionata, con un buon controllo della gestualità. Il viso è tondo, gli occhi distanti e le sopracciglia corrette, come ci si aspetta da una finta bionda: ha qualcosa della ragazza dell’Est, ma è ciociara. Il suo epicentro è la quarta, sfoggiata con frequenza nelle foto di Facebook ma adesso spudorata nella scollatura del vestito nero: un segnale che può essere interpretato come disponibilità o, al contrario, come agguerrita dichiarazione di intoccabilità. La cosa mi turba, ma non spaventa.

Mi racconta delle ricerche per l’università, dei disturbi di apprendimento dei bambini e del Ritalin. Non me ne frega nulla ma sto ad ascoltarla, in silenzio, più concentrato sull’uso delle parole che sui contenuti. È meno svampita di quanto vorrebbe dare a vedere: nelle sue parole c’è un sovraccarico di cliché e di considerazioni rubate, ma sa il fatto suo. Adesso, però, è tempo di andare al dunque.
“Ascolta. Starei qui a chiacchierare per ore, ma alle 19:30 devo scappare.”
“Sì, scusami. Dimmi tu. Sono nelle tue mani.”
“E fai bene. Il succo è che sei brava, e non sta a me dirtelo. Sei cosciente dei tuoi mezzi, degli stilemi espressivi e dei canoni estetici della poesia. Ho colto anche un certo citazionismo, correggimi se sbaglio.”
“Assolutamente sì. Campana, Montale, sono i miei santini, li trovi almeno ogni dieci righe.”
“E infatti. Lo squarcio rosso languente, no?”
“Sììì!”
“Brava, davvero, molto brava. Però, lo sai meglio di me, questo non basta.”
“Lo so, lo so.”
“Il problema è che oggi scrivono tutti. In Italia sono più quelli che scrivono…”
“… di quelli che leggono.”
“Sì, Dalila. Le cose stanno così. Ed è colpa di Internet: chiunque può aprirsi un blog e postare le sue cose, e per di più ricavarsi un suo micro-pubblico. Prendi Facebook. Col discorso dei mi piace è come se tutti conducessero un loro one-man-show quotidiano: gli basta ricevere più di venti mi piace che si sentono delle star, o degli scrittori affermati. I quindici minuti di Warhol sono diventati secondi, e ormai ognuno ha accesso alla fama, che sia anche per così poco.”
“Ma io non scrivo per la fama.”
“Dalila, per carità, è quello che dicono tutti. Ma il problema ancora più grosso è che tutti sostengono di essere gli unici a non scrivere per la fama, e che sono gli altri a farlo, e a sostenere di non farlo, col risultato che ognuno si riferisce agli altri come alla gente, che ognuno è la gente di qualcun altro e che in questo marasma i pochi ad avere davvero talento, come te, non riescono ad emergere.”
“Sì, è vero. Forse persino tu sei la gente per qualcun altro. Però magari per me potresti essere l’agente.”
Dalila scoppia a ridere. Va avanti per un minuto, senza riuscire a fermarsi, un minuto nel quale io non tradisco una sola espressione, cosicché quando la sua crisi isterica si è esaurita, Dalila è davvero nelle mie mani, mortificata, finalmente docile, reverenziale.  È il momento.
Le dico che in un’epoca come la nostra, un’epoca in preda all’”espressionismo”, inteso nell’accezione di Charles Taylor, in un epoca nella quale l’arte non è più elitaria l’unico modo per farcela è trovarsi un mecenate. Dalila annuisce.
Il passaggio da qui al bagno del bar è troppo breve per meritare di essere raccontato. Quando torniamo all’aperto, Dalila, con le labbra ancora unte, mi chiede se una brava come lei ha possibilità di essere selezionata al concorso di poesia del quale sono un giurato. Le rispondo che sì, una brava come lei ce la può fare. Poi le dico che mi rifarò vivo io e vado via.

 

Se qualcuno me l’avesse predetto quindici anni fa gli sarei scoppiato a ridere in faccia. Cambiare sesso mi sarebbe sembrato più probabile che lavorare in un panificio. Adesso, dopo due anni, non potrei immaginare una vita diversa. Mi sveglio ogni mattina alle 5:30, raggiungo il laboratorio e nell’anticamera indosso camice, cuffietta e guanti, una profilassi che dubito sia adottata altrove. Poi impasto lievito e farina con calma e solennità, perché stando a recenti indagini impastare il pane aiuta a combattere la depressione – non che io corra questo rischio, ma riconosco i benefici anti-stress della manipolazione. Disposti i panetti a riposare nelle teglie, mi dedico a qualche condimento per la pizza. Verso le 7 mi raggiunge Carla, la mia compagna, un’illetterata che non avrei mai conosciuto se non in questo contesto: se non è abile a letto, lo è nel far quadrare i conti, e questo è sufficiente. Lascio lei a infornare e vado dietro il bancone ad accogliere i primi clienti. Qui inizia la parte divertente, quella che chiamo “la pantomima”, che si compone di varie parti: uno sfoggio subdolo di cultura dozzinale, inserendo qui e lì un “la fame non vide mai pane cattivo, come diceva Franklin” o un “pane e baci sono il vitto dello scapolo, come direbbe Swift”; un certo atteggiamento cavalleresco, con leggerezza sui crediti e disponibilità assoluta; ma, soprattutto, la mia dizione perfetta, inusuale per un panettiere, che è il mio gioco privato, quando fisso le pensionate negli occhi e diaframmatico snocciolo i soliti Buonasera, Arrivederla, o Sembra ringiovanita solo per guardarle arrossire. Solitamente.
Oggi, invece, per un puro caso, tenevo gli occhi bassi e stavo in silenzio, mentre la voce di Dalila ordinava tre rosette integrali.
Da quando Dalila ha scoperto che il concorso di poesia non esiste mi tempesta di mail e chiamate, tanto che devo tenere il telefono senza suoneria per non insospettire Carla. Dopo giorni di minacce telefoniche, nascosto tra le auto del parcheggio nel tentativo di farla ragionare, ci accordiamo per un appuntamento. Fermata Flaminio, come l’altra volta.
In metropolitana immagino le trappole che Dalila può avermi preparato, tipo un amico pronto a rompermi le costole o dei microfoni nascosti nel reggiseno per rubarmi una confessione. Nel dubbio, ho con me il coltello.
Dalila mi aspetta fuori dalla fermata. Sembra un’altra persona. Ha il viso smunto, nervoso: tutto quello che dice è una bugia, ma la sua espressione di condanna è sincera. Indossa un completo da ginnastica fucsia, forse per essere visibile a distanza.
Mi guardo intorno in cerca di poliziotti in borghese. Dalila mi ordina di seguirla a piazza del Popolo. Ci sediamo ai piedi dell’obelisco, lo decide lei. Poi va al dunque: vuole 10.000 euro per non denunciarmi. Non riesco a immaginare con quali criteri abbia determinato la cifra, ma non importa. Ormai sono alle strette, mi rimane un’unica mossa. Mi accendo una sigaretta e faccio tremare la voce.
“Dalila. Mi spiace per tutto questo, ma non è come credi. Tu non puoi credere che io sia davvero un panettiere, sei troppo intelligente per crederci. È tutta una pantomima, Dalila. Io sono Roberto Musili.”
Il passaggio dall’impossibilità di credere a un’apparente boiata al crederci-nella-speranza-che-sia-vera è troppo breve per meritare di essere raccontato. Con le parole sono bravo e nonostante Dalila non sia la svampita che vuol far credere, il suo entusiasmo per l’ipotesi di trovarsi davanti Roberto Musili, lo scrittore che dopo aver incantato l’Italia nel 2001 con L’afflato sublime della gente comune, e aver venduto due milioni di copie, è sparito nel nulla, quest’ipotesi inverosimile trasforma Dalila in una bambina che ascolta una fiaba.
Le racconto che non ho retto al successo, e che per riconquistare la mia vita ho assunto il nome che uso oggi, e cambiato lavoro ogni due anni, inizialmente nella speranza di rimanere irrintracciabile, ma in seguito sviluppando l’idea di scrivere un nuovo romanzo che avesse per protagonista uno scrittore di successo che si ritira dalle scene per impersonare vite dozzinali, simili a quelle raccontate ne L’afflato, di individui invisibili e miserabili, l’ultimo dei quali è un intellettuale fallito ritrovatosi suo malgrado a lavorare in un panificio.
Nell’argomentazione della mia storia Dalila ritrova “tutta l’introflessione de L’afflato, con quell’originale mise en abyme postmoderna ma narrativa per la quale Musili è riconosciuto in tutto il mondo”, così dice Dalila. Il passaggio da questo cortocircuito a casa sua, e alle sue lenzuola, è troppo breve per meritare di essere raccontato.

 

Devono trascorrere due mesi prima che ritrovi Dalila. È in tv, ospite di “Stalker”, il programma d’inchiesta di La7. Sembra un’altra persona. Dalila in realtà si chiama Francesca, è castana, non si corregge le sopracciglia e non ama le scollature. Ma soprattutto non è un’aspirante poetessa. Francesca, la fu Dalila, è una giornalista (come un italiano su 526, stando a recenti indagini).
Era da quattro anni che seguivo le sue tracce, dice Francesca riferendosi a me, da quando faceva l’idraulico, subito prima di inventare il personaggio dell’intellettuale fallito che lavora in un panificio, forse la più affascinante delle sue creature. È stato in quella fase, dice Francesca, che sono entrata in contatto con il nostro Zelig, fingendomi un’aspirante poetessa cascata nella rete di un finto concorso promosso su Facebook. La cosa divertente è che, messo alle strette, ha sostenuto di essere Roberto Musili in persona. Ma la cosa ancora più divertente è che probabilmente in quest’istante ci sta guardando. Quindi ciao finto-Roberto-Musili, sappi che le tue truffe sono arrivate al capolinea. Stai in ansia, finto-Roberto-Musili, perché tra un’ora o due busseranno alla tua porta, mi dice Francesca dal televisore.

Sette mesi dopo Le mie vite altrui vince il premio Campiello. Dopo quasi dieci anni di silenzio Roberto Musili è tornato e la stampa lo acclama come il Carrère italiano, maestro indiscusso del non-fiction novel nostrano. Ho ricevuto un anticipo di 100.000 euro lordi da Bompiani e ne ho versati 9.999 sul conto di Francesca, la fu Dalila, come equo compenso per la fellatio che suggellò il nostro primo incontro, ma con una componente aggiuntiva di mortificazione, ovvero un euro in meno.
Al panificio, purtroppo, non lavoro più, assorbito come sono da presentazioni, interviste e comparsate televisive. Le mie vite altrui è un best-seller acclamato da critica e pubblico, anche se nelle recensioni si parla più dei miei dieci anni di latitanza che del contenuto del libro, che probabilmente nessuno ha letto. L’eccessiva visibilità ha il suo rovescio. A tre mesi dall’uscita di Le mie vite altrui ritrovo su La7 la giornalista Francesca, che evidentemente non ha ricevuto il versamento bancario, o che non ha digerito l’affronto dell’euro mancante, “in compagnia del vero Roberto Musili, che è qui con noi per rendere pubblica la sua intenzione di chiedere i danni economici e morali a colui che ne ha sfruttato il nome a scopo di lucro proditorio, ma soprattutto che l’ha costretto ad uscire dall’anonimato”.
Il vero Roberto Musili, infatti, dopo il successo de L’afflato sublime della gente comune si era ritirato non tanto perché misantropo, quanto perché spaventato dall’improvvisa ricchezza: è stata questa paura a spingerlo a scialacquare i guadagni derivati dal romanzo nei primi due anni dalla pubblicazione tra gioco d’azzardo e prostituzione. Ma dopo otto anni di miseria, il vero Roberto Musili vuole che ciò che è di Cesare torni nelle tasche di Cesare.

 

Sei mesi dopo il vero Roberto Musili è stato arrestato. Ho dovuto dar fondo a 90.000 euro per assoldare avvocati dai superpoteri, che facessero passare il vero Roberto Musili per un mitomane. Mi è rimasto un euro, che avrò premura, non appena riuscirò a rintracciarla, di spingere in fondo al colon di Francesca, la fu Dalila. Fatto questo, ricomincerò da zero, ancora una volta, e poi così per sempre, ad libitum.

Testo: Matteo Moscarda
Immagini: Luca Lenci
 

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