Imprecò sottovoce mentre osservava con il binocolo dall’alto della sella. La colpa era della pattuglia di confine, come sempre. Quegli incapaci. Se facessero bene il loro lavoro, non ci sarebbe bisogno di chiamarla, e lei potrebbe restarsene con Anna.
Inveì un’altra volta, senza troppa convinzione. Odiava separarsi da lei, però qualcuno doveva pur sistemare il disastro.
Quantomeno aveva smesso di piovere. Non sarebbe durata, la stagione delle piogge era imprevedibile se non per il fatto che a fine giornata ci si sarebbe bagnati. La verità è che la pattuglia aveva fatto un buon lavoro seguendo gli invasori con l’elicottero. Inoltre, doveva ammetterlo, chi avrebbe mai pensato che sarebbero riusciti a prendere un veicolo da questa parte del confine? Se non fosse stato per il monsone, molto probabilmente li avrebbero fermati.

Fece avanzare il cavallo senza fretta. Non era molto distante dalle coordinate in cui l’unità aerea aveva perso contatto con gli invasori. Si mise all’erta, sapeva che quello era il momento in cui le cose iniziavano a farsi interessanti. La prima cosa fu l’olfatto, che colse l’inconfondibile profumo di un falò, non un fuoco selvaggio, solo un fuocherello accogliente presso cui asciugare i vestiti e riscaldare le ossa inzuppate. Poi scorse il tenue filo di fumo che si alzava dalla foresta vicina. Nessun intruso abbastanza abile da organizzare un’incursione con buoni esiti avrebbe in seguito fatto qualcosa di così stupido come accendere un fuoco a venti miglia dal proprio punto di entrata, ma era comunque abbastanza singolare da meritare un’occhiata.

Smontò non appena raggiunse il margine della foresta. Legò il cavallo a un ceppo abbattuto dalla pioggia e prese il fucile. Poco dopo trovò quello che stava cercando, in un tratto di strada sgombro. Un uomo dalle spalle larghe, con la pelle coriacea, seduto accanto a un falò e a un piccolo bivacco.
Gli si avvicinò senza fare rumore. Sapeva di poter essere veramente silenziosa quando voleva, ma l’uomo non si spaventò quando lo salutò. D’altronde era un ranger, gente strana e peculiare, abituata all’assenza di contatto umano mentre si aggirava per il territorio esterno controllando che le cose non andassero troppo fuori controllo. Fu cortese con lei, le offrì una tazza di caffè e rispose con semplicità alle sue domande. Non c’era niente fuori posto, ma era nervoso, si vedeva chiaramente. Doveva vagare per la macchia da un pezzo, la sua manica era strappata e la barba molto spettinata. Non smetteva di guardare uno zaino nell’ombra. Forse trasportava sigarette o caffè di contrabbando, cosa non insolita tra i ranger, considerato il loro vagabondare. La sua autorità come membro della pattuglia di frontiera le conferiva il potere di richiedere la perquisizione di qualsiasi cittadino sospettato di traffico illegale, ma ignorò la faccenda. Dopotutto, non aveva tempo per affrontare una cosa così banale. L’uomo la salutò con la mano e la guardò allontanarsi. Era preoccupato, non c’erano dubbi. Si segnò il suo nome. Queste cose tornavano sempre utili quando bisognava richiedere il supporto di un agente sul campo.

Era quasi notte quando raggiunse finalmente le coordinate fornite dall’elicottero. Come previsto, le orme erano quasi scomparse, ma c’erano ancora tracce che poteva seguire. Cespugli schiacciati, sassi lanciati dalla trazione meccanica, macchie d’olio che nemmeno la pioggia era riuscita a cancellare. I sermoni che parlavano del passato oscuro avevano ragione, queste macchine erano creazioni immonde, corrotte fin dal loro concepimento.
Non le ci volle molto per trovare una pista più solida. Come con il ranger, fu l’odore ad arrivarle per primo, una debole traccia di gomma bruciata trascinata dal vento. Un aroma che non sentiva da anni, notarlo le fece vibrare nella memoria alcuni ricordi fastidiosi che reclamavano attenzione. Li seppellì di nuovo con la destrezza che l’esperienza porta con sé. Subito dopo, fu il suo udito a captare qualcosa di nuovo, un suono monotono e ininterrotto che impiegò alcuni minuti a localizzare. Veniva dall’interno di un burrone.

Si affacciò con attenzione, il burrone era stretto e profondo più di venti metri. Là, incastrata a metà strada verso il torrente, c’era un’auto, l’auto, supponeva, distrutta, da cui proveniva il rumore che aveva attirato la sua attenzione. Era caduta per dieci metri finché non si era trovata intrappolata in un restringimento della gola. Dovevano aver fatto un incidente nel tentativo di seminare la pattuglia aerea, guidando durante il monsone. Si sarebbe dispiaciuta, ma la convinzione non lasciava spazio alla pietà quando si trattava di proteggere uno degli ultimi rifugi umani rimasti.
Fece schioccare la lingua con disgusto mentre si sporgeva. Non avrebbe dovuto venir disturbata per questo, una semplice ricognizione più approfondita dell’elicottero dopo la tempesta sarebbe bastata a risparmiarle il fastidio di dover uscire di nuovo allo scoperto, di dover abbandonare Anna. Almeno questa caccia era stata breve, doveva solo tornare indietro e scrivere il suo rapporto.

Stava già andando via quando qualcosa attirò la sua attenzione. Filamenti giallo fluo intrappolati in una fenditura della roccia poco distante. Si avvicinò per esaminarli da vicino. Erano appartenuti ad una corda, non c’erano dubbi. Una corda da arrampicata. Qualcuno di loro era sopravvissuto? Non senza aiuto, questo era certo, e la rete di sostegno all’immigrazione clandestina non operava fuori dalle città.
Legò la propria corda alla roccia e si calò nel burrone. Odiava la discesa in corda doppia, la sua passione era l’arrampicata libera, mani e piedi in intimità con la parete, ma non era il momento.
Si calò fino all’altezza dell’auto. Il motore fumava a malapena, però perdeva ancora olio. Un’adulta sedeva sul sedile anteriore. La cintura di sicurezza e l’airbag erano stati inutili per fermare la roccia che aveva spinto il volante contro la sua cassa toracica. Un’altra donna doveva essere stata sul sedile del passeggero. Era stata lanciata fuori dal parabrezza. Il suo cadavere giaceva a pochi metri di distanza, in una postura che ricordava una bambola passata per troppe mani infantili.
Sul sedile posteriore c’era un seggiolino da viaggio per bambini che ora sembrava mostruosamente fragile. Una sedia vuota. Una fitta di dolore le attraversò il petto nel ricordare sua figlia a quell’età. Doveva esaminare l’interno se voleva capire cosa fosse successo. L’operazione fu più complicata del previsto, il veicolo era in un equilibrio precario e l’unica porta accessibile era bloccata. Scivolò attraverso il buco nel parabrezza, lo stesso che aveva aperto la seconda donna quando era stata rimbalzata all’infuori.
Ignorò il cadavere mentre strisciava sui sedili. In fondo, accanto al seggiolone, c’era un ammasso di borse da viaggio con vestiti, effetti personali e documenti, ma nessun cadavere di piccole dimensioni. Controllò il buco attraverso il quale era entrata. C’era un pezzo di stoffa che pendeva dai vetri rotti. Tessuto marrone, come l’uniforme del ranger. Se non si sbagliava, e non era abituata a sbagliarsi, anche i servizi forestali usavano una corda fluorescente. Rende più facile localizzare i corpi in caso di incidente, dicevano. Per forza quell’uomo era nervoso. Il suo istinto aveva avuto ragione, sì che portava merce di contrabbando in quello zaino, solo che non si trattava di tabacco. Scosse la testa mentre si alzava, non avrebbe mai capito certe cose. Si consolò al pensiero che dopotutto avevano fatto bene a chiamarla.
Fece i conti a mente mentre si avviava. Quanto era lontana dal bivacco del ranger? Fin dove sarebbe potuta arrivare prima che facesse buio se avesse forzato il suo cavallo? Quanto velocemente poteva muoversi lui trasportando un bambino? Se avrebbe continuato ad andare per la via più diretta o se avrebbe provato a percorrere un qualche sentiero nascosto da occhi indiscreti? Quanto ci avrebbe messo a dar loro la caccia? Illegale e complice.

Era ormai il giorno seguente quando arrivò alla radura dove l’aveva trovato. Era scomparso, esattamente come si aspettava. Aveva previsto che non si sarebbe fermato, però di solito rimaneva sempre una traccia, orme difficili da cancellare, resti del bivacco, ceneri incastrate negli arbusti vicini, un qualche segnale del passaggio umano. Questa volta non c’era niente. Se non fosse stata lì prima, avrebbe pensato che erano mesi che in quel bosco non aveva messo piede anima viva. Fece una smorfia.
Quando lo aveva visto la prima volta, il ranger non le era parso particolarmente sveglio, eppure si era dimostrato molto più abile di quanto aveva dato a vedere. Far sparire un insediamento era una cosa. Eliminare completamente una traccia era, invece, qualcosa di molto diverso.
Si mise di nuovo in cammino.

Il vento scarmigliava i crini del suo cavallo. Era una brezza calda e umida che appesantiva i vestiti, e che però faceva ridere il bambino muovendo da una parte all’altra il cordino che serviva come sottogola per il suo cappello. Si guardò indietro, come faceva ogni mezz’ora, e vide un bagliore in lontananza, il sole che si rifletteva su un pezzo di metallo. Era ancora a buon punto, ma non c’erano dubbi sul fatto che lo stessero seguendo. Aveva sperato di depistare l’inseguitrice per qualche giorno in più, ottenere un po’ di vantaggio prima che lo trovasse, ma aveva guadagnato appena qualche ora.
Guardò il bambino che rideva, incosciente della sua situazione precaria. Solo i pochi fortunati che riuscivano a raggiungere la città senza venir scoperti riuscivano a scappare grazie alla rete di appoggio all’immigrazione. Però, perché ciò accadesse, dovevano prima riuscire ad arrivare in città. Aveva sentito parlare di questa donna. Il miglior segugio della guardia di frontiera, l’inseguitrice che chiamavano quando qualcuno riusciva a schivare la pattuglia. Un’inseguitrice tremendamente efficiente, se le voci erano veritiere.
Si mise in cammino mentre controllava i rifornimenti. Acqua non ne mancava, però aveva sperato di potersi fermare per cacciare qualcosa, gli restava giusto del cibo disidratato. Non era un dramma, poteva resistere ancora un po’. Il problema era il bambino. Per fortuna nella macchina c’era tutto il necessario per curarlo, almeno per un po’, ma continuava ad aver bisogno di scaldare acqua per preparargli i biberon e questo significava accendere un fuoco. Addio al suo piano iniziale di cercare un rifugio nascosto dove sparire per una settimana. Non con quella inseguitrice alle costole. Quantomeno il bambino aveva smesso di piangere, sembrava stare comodo nello zaino che aveva preso dalla macchina. Non era la culla migliore del mondo, ma gli aveva già salvato la vita una volta.
Pensò di dirigersi verso nord per un momento, dove c’era ancora un po’ di neve. Lì sì che avrebbe potuto sparire. Però il bambino non ce l’avrebbe fatta. Non così. Dunque la sua unica opzione era arrivare in città. Era una gara.
Poco dopo cominciò a piovere di nuovo. Gli zoccoli sguazzavano nel fango mentre si dirigevano verso il fiume. Non era una buona idea, per niente, lo sapeva, però non c’era altra opzione, se voleva sopravvivere all’inseguitrice. Anche Boquerón, il suo cavallo, sapeva che non era una buona idea. Nitrì arrabbiato e agitò la testa mentre raggiungevano la riva. Scalpitava e sbuffava mentre cercava di farlo entrare in acqua. Era da parecchio tempo che non lo vedeva fare così. Non gli restò altra soluzione che smontare e guidarlo a piedi, tenendolo per le redini.
Era un fiume impetuoso, e le piogge lo avevano quasi trasformato in un torrente. Cominciarono a discendere, cercando di tenersi il più lontano possibile dalla riva per non lasciare né orme né odori da seguire, senza però avvicinarsi alla parte più profonda dove le correnti erano troppo forti, persino per il suo cavallo. Dovettero proseguire per diversi chilometri prima che Boquerón gli permettesse di montare di nuovo. Mentre si appoggiava sulla staffa per salire, non poté evitare di pensare che l’animale glielo stava permettendo solo perché l’acqua cominciava ad arrivare alla parte inferiore dello zaino dove c’era il bambino. Si propose di cercargli delle mele una volta arrivato in città, come per scusarsi.
Corse il rischio di lasciar passare il primo guado, troppo scontato. Se l’inseguitrice era sulle sue tracce, sicuramente lo avrebbe studiato scrupolosamente, e quindi attraversarlo non sarebbe servito a niente. Continuarono a scendere con l’acqua che arrivava sopra alle ginocchia di Boquerón. Si sarebbe azzardato a lasciar passare anche il secondo guado? Era rischioso, a monte c’era una diga naturale, creata da una colonia di castori e da uno sfortunato cumulo di alberi malati finiti in acqua. L’anno passato la diga gli aveva già dato qualche grattacapo, e aveva pensato di salire a smontarla per evitare che si ripetesse la piena senza controllo, ma non ne aveva avuto il tempo. Troppe cose da fare e troppe poche mani. Si allontanò dal secondo guado senza attraversarlo.
Quando raggiunse il terzo guado, era già fradicio. Decise di non continuare a sfidare la sorte, se fossero rimasti bloccati da questo lato del fiume, sarebbero stati alla mercé dell’inseguitrice. Cominciò ad attraversare il fiume cercando di non inciampare su qualche roccia smossa. Gli sarebbe piaciuto accendere una sigaretta, qualunque cosa pur di mantenere le mani e l’attenzione occupate con alcunché di irrilevante, però la pioggia non glielo avrebbe permesso. Era una coltre d’acqua spessa, pesante, che lasciava a malapena intravedere qualcosa. Il tipo di acquazzone che crea problemi. Il primo a notarlo fu Boquerón, iniziò a nitrire spaventato quando erano già a metà strada. Quando guardò verso il basso, vide che l’acqua gli arrivava quasi agli stivali. Fece un voto e cercò di far avanzare il cavallo più rapidamente, ma la corrente era già fortissima e riusciva a malapena a fare piccoli passi.
Mancavano giusto venti metri alla zona sicura quando cominciarono a fluttuare i primi tronchi e rami. Erano piccoli, però procedevano a tutta velocità, trascinati dall’acqua sempre più selvaggia. Il torrente copriva già metà del fianco di Boquerón quando arrivò il tronco. Furono fortunati, il legno non era grosso ed era girato di lato. Se l’acqua l’avesse trascinato di fronte, con l’estremità scheggiata piena di punte affilate, probabilmente avrebbe perforato il povero animale. Anche così, li colpì con tanta forza che riuscì a spostarli diversi metri più in basso. Per un attimo pensò che si sarebbero ribaltati, che il cavallo avrebbe perso l’equilibrio e sarebbero finiti trascinati dall’acqua, ma Boquerón riuscì a trovare un nuovo punto d’appoggio e continuò ad avanzare nitrendo spaventato.
Aveva le gambe intorpidite dall’acqua gelata quando il tronco li colpì, per questo sul momento lo notò appena, però adesso che stavano uscendo dall’acqua era diverso. Iniziò a sentire un dolore sordo che sorgeva dalla gamba e cominciava a diffondersi rapidamente fino a quando non fu dappertutto.
Non osò guardare finché non ebbero finito di guadare il fiume, i minuti più lunghi della sua vita. Sapeva cosa avrebbe trovato quando finalmente si sarebbero fermati. La sua gamba ridotta in polpa, ossa scheggiate che spuntavano dai pantaloni, un brandello di carne che circondava l’osso nudo. Quando trovò il coraggio per sbirciare, poté verificare che effettivamente il colpo era stato molto forte, e che avrebbe camminato male per alcune settimane, però perlomeno poteva farlo. Non c’era nessuna frattura. Il bambino era molto agitato. Non sapeva da quanto tempo stesse piangendo, forse dall’inizio della piena. Abbracciò lo zaino col bambino e lo tenne stretto, promettendogli che il peggio era passato, che ce l’avrebbero fatta. Quindi si udì uno sparo.
Era uno sparo in aria, un avvertimento. Un modo per fargli sapere che non importava quanto corresse, non sarebbe riuscito a depistare l’inseguitrice.

Se quel ranger fosse molto sveglio o se avesse una fortuna sfacciata, Sonia ancora non l’aveva capito. Di certo le era già sfuggito troppe volte dalle dita. Lo aveva quasi acchiappato durante la tempesta, ma la piena l’aveva isolata sulla sponda sbagliata del fiume. Quando aveva recuperato la pista, lui era già lontano. Non ci mise molto ad accorgersi che qualcosa non andava con la sua preda. Il suo ritmo era cambiato, non si muoveva più velocemente come prima e le sue soste erano molto più frequenti. In un’occasione trovò i resti di un falò semicoperto. Era arroganza o stava diventando negligente? Optò per la seconda opzione.
Arrogante o meno, lei doveva affrettarsi, se avesse raggiunto la città l’intruso sarebbe scomparso, la rete sarebbe riuscita a nasconderlo, come una cellula cancerogena che dorme in attesa di cominciare a moltiplicarsi per distruggere l’organo che la ospita.
Seguì la traccia sempre più erratica. Sembrava che guidasse il suo cavallo solo di quando in quando, incespicando sulla rotta. In un’occasione vide l’impronta inconfondibile di un corpo vicino a una pozzanghera. Quell’uomo era collassato. Non a lungo, sembrava che si fosse rimesso in piedi quasi immediatamente, ma era comunque significativo. Non poteva essere la fatica, l’inseguimento non era durato abbastanza a lungo, doveva essere qualcos’altro. Malattia. La parola le fece sentire un brivido lungo la schiena. Ovviamente. Gli intrusi portavano tutta una classe di patologie infettive per le quali non esisteva cura. Per questo motivo, anche quando veniva concesso un visto d’ingresso, era obbligatorio compiere un periodo di quarantena in isolamento. Ed era anche per questo che i visti venivano concessi a malapena. Gli idioti come il ranger, che vivevano nella loro bolla privata, potevano permettersi il lusso di avere scrupoli, di accusarla di mancare di moralità, quando erano loro che mancavano di coscienza. Avrebbero lasciato che le loro obiezioni condannassero la società intera, una delle poche comunità che non solo erano riuscite a resistere ma anzi a prosperare nella nuova era delle catastrofi; che crollasse tutto in nome della loro integrità. Ipocriti. Poi si lamentavano quando cominciavano le epidemie e i bambini iniziavano a morire.

Lo trovò il giorno seguente, poco dopo l’alba. Questa volta non aveva nemmeno ritirato l’accampamento. Aveva preparato un biberon e si era seduto ad aspettarla con il bambino in braccio. Tremava dalla febbre quando arrivò Sonia. La sua gamba era allungata. Gli faceva chiaramente male. Non sussultò quando la vide arrivare, proprio come l’ultima volta.
La guardò con occhi vitrei e cercò di puntarle contro un fucile, ma non smetteva di tremare. Lei si avvicinò e lo scostò delicatamente. Avrebbe potuto sparargli, sparare a entrambi, da lontano, farla finita con questa odiosa faccenda prima che tutto si degradasse ulteriormente, ma sarebbe stato un assassinio, e lei non era un’assassina.
“Come ti chiami?”, chiese sedendosi sopra a un ceppo a poco più di un metro di distanza da lui.
“Gustav.”
Parlava piano, trascinando le parole con voce pastosa.
“Non hai la faccia da Gustav. Dimmi, perché l’hai fatto?”
Non si diede nemmeno la pena di muovere la testa per guardarla, quando le rispose.
“Se devi chiederlo, allora non vale nemmeno la pena spiegartelo.”
Sonia prese il bambino in braccio. Pesava pochissimo. Ricordava a malapena la sensazione di tenere in braccio un bambino che ride. Si diresse con lui verso il cavallo.
“È un peccato – disse al ranger mentre si allontanava – saresti stato un ottimo inseguitore”.
“Anche tu avresti potuto essere una brava persona”, rimase in silenzio, la vista smarrita.
Lo aveva giusto toccato un secondo quando aveva preso il bambino, però fu sufficiente per realizzare che bruciava di febbre.
“Prima di andartene, dimmi perché lo fai.”
Lo guardò senza capire la domanda.
“È una guerra, ranger. O loro o noi. Non c’è via di mezzo.”
“Sì, ho visto la vostra pubblicità. Non importa chi tu sia, se non hai il visto non entri.”
Tutti avevano visto quella campagna pubblicitaria, il Ministero della Comunicazione se n’era assicurato. Sapeva ciò che ne pensavano i tipi come lui. Sapeva cosa dicevano di lei, le voci che circolavano e le verità dietro queste. Non ci aveva mai prestato la minima importanza, non aveva mai fornito spiegazioni perché sentiva di non dovere niente a nessuno. Ancor meno a questo ranger con il complesso del crocerossino. Però c’era qualcosa nel suo sguardo, un fuoco che si rifiutava di spegnersi, forse le ultime braci di un orgoglio che non poteva fare a meno di rispettare.
“Hai figli, Gustav? Io sì, una bambina, Anna, che presto smetterà di esserlo. E vorrei che avesse un futuro.”
Il ranger scoppiò a ridere. Una risata cinica e amara.
“Quello che voglio sapere è che cosa ti spinge a svegliarti una mattina e dire, oggi ucciderò un bambino.”
“Non ucciderò nessuno – esclamò indignata – Non sono un mostro”.
“È vero, ho visto il tuo ciondolo. Sarebbe peccato. Non so perché mi sorprenda che la pattuglia di frontiera sia piena di fanatici. No, hai ragione, semplicemente metterai questo bambino su un mezzo di trasporto che lo porterà in un luogo moribondo senza nessuno che se ne prenda carico affinché il mercato nero degli organi si occupi di lui. Però non lo ucciderai. È questo quello che dici a te stessa? Che non lo uccidi?”
“È la verità.”
“E immagino che sarai orgogliosa del tuo lavoro. Dimmi, anche tua figlia è orgogliosa del tuo lavoro?”
Nella radura si sentivano solo gli uccelli e lo scricchiolio del bosco, sebbene Sonia li udisse a malapena, annegati dal boato del suo cuore che aveva iniziato a batterle con forza nelle orecchie.
“Capisco. Non lo sa – Sonia chiuse gli occhi. – Quello che fai è giusto, hai perso una persona in una qualche epidemia, questo è ovvio, quindi hai un sacro dovere che ti spinge e, anche così, non l’hai detto a tua figlia”.
“È complicato.”
“No. Non lo è. Facciamo una cosa. Tu prendi quel bambino, fai quello che devi fare con lui. Io cerco tua figlia, e la troverò, tu stessa hai detto che sarei un buon inseguitore; e le racconto cosa fa sua madre. Le cose che fa al lavoro. La storia di quel bambino. Sicuro sarà orgogliosissima. Sarai la sua eroina. Non c’è bisogno che mi ringrazi.”
“Potrei ucciderti.”
“E io non potrei impedirtelo. Però così saresti un’assassina. Magari non t’incolperanno mai dell’accaduto, dopotutto gli esterni sono selvaggi e pericolosi, lo sanno tutti. Però tu lo sapresti. Sapresti cos’hai fatto a un uomo malato e disarmato. Oppure potresti lasciarci qui e sperare che la febbre e le belve si facciano carico del lavoro sporco. Che ne dici?”

Trovò i primi segnali di civilizzazione il giorno dopo. O forse erano passati due giorni, non lo scoprì mai con esattezza. La febbre lo stava divorando, corrodendo le sue interiora, di modo che tutto restava sommerso in una nebbiolina disconnessa. Per fortuna Boquerón sapeva dove doveva andare. Nel posto di sempre.
Si risvegliò in una stanzetta rivestita di legno chiaro che sulle prime faticò a riconoscere. Aveva la gamba steccata. Non riconobbe il posto fino a quando non uscì dalla stanza. Era un piccolo stabilimento situato nella foresta, a un giorno e mezzo dalla città, un’attività dedita a rifornire i numerosi cacciatori, minatori e guardie forestali che avevano deciso di abbandonare la città in cerca di una vita più selvaggia e agreste. Dentro c’erano, come sempre, Olle e Maja, la coppia che lo gestiva. Da tempo erano diventati parte della sua famiglia. Olle teneva il bebè tra le braccia esperte di chi ha già cresciuto cinque figli, mentre Maja ci giocava, e lui non smetteva di emettere gridolini di gioia.
Entrambi urlarono quando videro Gustav in piedi. Era in pessime condizioni quando era arrivato, gli dissero, soprattutto la gamba. Fortunatamente avevano una buona scorta di antibiotici. Il bambino fu davvero una sorpresa. Lui e Gustav erano legati l’uno all’altro quando erano arrivati. E non solo, un’altra corda li teneva attaccati al cavallo. Chi li avesse messi in sicurezza a quel modo, era un mistero, ma di sicuro aveva fatto un buon lavoro perché a Olle ci vollero dieci minuti buoni per sciogliere i primi nodi, finché Maja non perse la pazienza e tagliò la corda. Era un’ottima corda, protestò Olle sottovoce.
Il bambino, invece, sembrava sano. Olle lo esaminò attentamente quando arrivò. Che Olle amasse i bambini era noto a tutti. Che in gioventù aveva studiato pediatria, invece, lo sapevano in pochi. Un po’ denutrito, fu il suo verdetto, niente di sorprendente. Nessuno dei due fece domande sulla sua provenienza.
“Che pensi di fare?”, chiese Maja.
“Non lo so. Penso di portarlo in città. Tu sei in contatto con la rete, giusto?”
“Non puoi portarlo a Stoccolma – disse Maja – c’è un focolaio di malaria. Uno grosso, e queste piogge non aiuteranno a controllarlo. Hanno tre distretti in quarantena. Ma posso procurarti dei documenti per lui”.
Una settimana dopo, Gustav, già guarito, tornò nella foresta, ma questa volta trasportava, oltre al suo cavallo, anche un mulo carico di provviste per bambini, alcune delle quali non sapeva ancora a cosa servissero, sebbene Olle avesse insistito perché non si preoccupasse, lo avrebbe scoperto a suo tempo. Sarebbe andato più lentamente, però il piccolo Hans avrebbe avuto tutti i suoi bisogni soddisfatti per un po’. Una risata risuonò dall’interno dello zaino quando Gustav iniziò a cantare.

Testo Carlos Pérez
Illustrazioni Francesco Levi
Traduzione Linda Farata

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