LETTURATORE presenta

 

La ragazza asiatica raccoglieva lo sfrido da terra. Indossava un camice da lavoro bianco abbottonato fino al collo e soprammaniche di tela celeste. Una mascherina chiara di garza sterile le copriva la bocca e il naso. I capelli raccolti le ondeggiavano sul collo come la piccola coda nera e opaca di una carpa lenta e sazia. China nel capannone silenzioso, la ragazza asiatica passava la scopa a terra con piccoli movimenti precisi tra le macchine da cucire spente e i tavoli da taglio di acciaio spazzolato.
Lungo la strada, il ronzio dei lampioni anticipava l’arrivo della sera, e il buio seguì precipitoso, come marcato da un interruttore a scatto. Un cane randagio rispondeva da un punto lontano al suono dei clacson.

La piccola azienda di guanti da signora era in affari dagli anni Cinquanta e aveva resistito – non priva di difficoltà – a più di un tentativo di vendita e liquidazione. Adesso – in un tempo in cui i costosi guanti di pelle cuciti a mano erano soltanto un accessorio invernale – le tagliatrici rincasavano prima, meno stanche, meno numerose.

Fuori dal capannone, e per molti chilometri intorno, la luce era spenta, e nessuno, nessuno tra quelli che conoscevo una volta sarebbe uscito di casa rischiando di perdersi nel buio, non avendo più saputo cos’era accaduto agli altri che ci avevano provato. La notte era fredda e ventosa, il cielo del giorno di un grigio che non lasciava intendere nessuna possibilità di variazione. Io mi ero riparato nel capannone molto tempo prima, scappando con tutto il cibo che ero risuscito a rubare dalla comune. Mi ero ricavato una postazione sicura tra quelli che dovevano essere stati banchi per un lavoro di precisione, barricato dietro tavole di acciaio spesso che non mostrava segni di corrosione.

giulia mangione foto 1
Il turno delle pulizie iniziava alle 19, quando il capannone era vuoto da un paio d’ore e la ragazza asiatica poteva indossare la divisa della cooperativa tra le postazioni di lavoro senza nascondersi, senza dover percorrere tutta la strada fino ai bagni. Si toglieva le scarpe da ginnastica tirando un piede contro l’altro, lasciava scivolare i jeans, sollevava la maglietta. Poi lasciava tutto a terra, in un punto dove sarebbe tornata dopo a pulire.

I ricordi. Il passato si muove solo nei confini di un ricordo condiviso, nulla di più, se quel sogno comune cede in assenza di prove. Dopo l’Accaduto, quando molto di quello che avevamo costruito fu andato perso, il passato iniziò a dissolversi man mano che i nostri ricordi andavano dissipandosi. La voce della madre, la consistenza della carne sotto i denti, il punto di colore della camera dei figli.

Mentre rigovernava, la ragazza asiatica si fermò ad ascoltare. Era un brusio leggero, un suono lontano, basso e svelto, come di trapano a battente. Uscì da una delle porte posteriori, una di quelle non allarmate. La zona industriale era sempre deserta a quell’ora, ma adesso era animata da qualche automobile. Camminò per un centinaio di metri, svoltò a un angolo, il quartiere era pieno di macchine.
Chi non era in coda aveva già posteggiato ai lati della strada, altri sopra le rotatorie ampie ed erbose, qualche decina di metri più avanti gli automobilisti avevano smesso di aspettare in coda ed erano scesi dalle auto, abbandonando i mezzi dove si trovavano.
La strada assomigliava a una sezione di arteria che lentamente si ostruisce. La ragazza asiatica non si accorse subito della calma irreale nella quale tutto si stava svolgendo. Si lasciò trasportare, accompagnata da quell’abbraccio collettivo, lento e rassicurante, verso un punto oltre la fine della zona industriale dal quale arrivava uno sciame di luce colorata e quel brusio che aveva sentito prima, nel capannone dove stava facendo le pulizie.

Dopo l’Accaduto ricordo che mi ero ritrovato solo, ricordo il silenzio.
Mi ricordo che tutto sembrava assolutamente identico a prima, eppure irrimediabilmente diverso, come una microfrattura nel presente, una scheggiatura interna e sommersa.
Dopo l’Accaduto ci sono venuti a chiamare, ma in casa ero solo e mi hanno fatto entrare in macchina controvoglia. Avrei voluto
aspettare che tornassero i mei genitori, ma continuavano a ripetere che non c’era tempo da perdere, che avrei ritrovato tutti là dove stavamo andando, perché era là che venivano portati tutti. Ci dissero che l’Accaduto era una conseguenza non intenzionale, non era colpa di nessuno.
Attraversammo la città, fermandoci un paio di volte a raccogliere altri ragazzini. Gli adulti sembravano scomparsi. Ne ritrovammo alcuni poco dopo in una zona ai margini della città, lungo un campo di tende che doveva essere stato allestito molto tempo prima.
Sembravano profughi sbarcati da un tempo che li aveva visti sazi e migliori. Si aggiravano tra strutture di legno abbandonate e file di automobili e mezzi di soccorso fermi agli angoli della strada. Ogni cosa sembrava abbandonata da tempo. Come la tavola imbandita per un ospite mai presentato. Mi voltai verso i profughi, si muovevano incerti, aiutandosi con le mani, come calati in un buio profondo e inevitabile.

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Qualcuno aveva allestito dei palchi, un campo di tende si allungava per molte decine di metri, e c’era musica in filodiffusione, simile a musica per aeroporti. La gente era commossa, altri ballavano o si abbracciavano e sembravano ritrovarsi dopo un lungo viaggio. La luce colorata era fredda e la ragazza asiatica si strinse nelle spalle, sentendosi irrimediabilmente sola in mezzo a tutto quello. Poi la luce si spense, lì e per molti chilometri intorno, e nessuno, nessuno tra quelli che la ragazza asiatica aveva intorno c’era più per gli altri. Ciascuno perso nel buio, un buio assoluto e privato, come la cecità perenne di un occhio spento.

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Testo:
Ferdinando Morgana
Fotografie: Giulia Mangione

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