L’avvoltoio intanto si nutriva, mentre tutti passavano accanto alla scena non badando a quel che stava succedendo. L’avvoltoio intanto si nutriva. E cosa avrebbe dovuto fare altrimenti?

Bisognerebbe osservarlo bene un avvoltoio, di qualsiasi specie, mentre fa quello per cui la natura l’ha creato. L’avvoltoio del vecchio continente non ha olfatto, e trova le carcasse solo grazie alla vista, mentre l’avvoltoio del nuovo  tende a trovarle grazie all’olfatto. Nulla gli sfugge. Un solitario, discreto e imperiale, che da lontano sembra addirittura un’aquila reale. L’avvoltoio non mangia unicamente le carcasse, l’avvoltoio ripulisce tutto ciò che è morto, distruttore e innovatore.

Come un fiume in piena tutti marciavano, correvano, cercando affannosamente qualche scorciatoia, qualche modo per evitare ogni tipo di scoglio, di ostacolo. A testa alta lo sciame continuava la marcia: qualcuno cercava l’ape regina, qualcuno solo del miele, qualcun altro invece, trovatosi nella mischia senza una ragione, seguiva lo sciame per inerzia.

L’avvoltoio intanto si nutriva. È tutto inutile, nessuno lo avrebbe visto, nessuno avrebbe notato quel becco che molto lentamente e senza fretta si occupava del suo fabbisogno giornaliero. Nessuno si sarebbe chiesto di chi fosse quella carcassa. Come sassi che rotolano senza sosta da una montagna, i piedi delle persone battevano l’asfalto, così forte, così tanti, così insaziabili. Non lasciavano tracce ma raschiavano l’asfalto, i marciapiedi, le zone pedonali e le stazioni della metropolitana. I piedi avanzano in linea retta, come se non avessero gambe, come se non avessero corpo, come se non avessero niente che li indirizzasse. Le infinite linee modificavano la loro traiettoria solo in caso del sopraggiungere di un ostacolo, come scarpe senza un’anima non avevano occhi e non potevano vedere il vecchio che aveva perso il sostegno del suo bastone e non riusciva a rialzarsi, non potevano vedere il senzatetto di cui non si conosceva lo stato vitale, nascosto sotto una coperta di fortuna, non potevano vedere la bimba che aveva perso la propria madre, non potevano vedere il nemmeno l’avvoltoio che osservava la gente, appoggiato su una ringhiera di un parcheggio di una grande città. Scarpe inanimate che non potevano vedere milioni e milioni di cose.

Famelico, intanto, l’avvoltoio si nutriva. Come stuzzicadenti incastrati in un contenitore, migliaia di manichini senz’anima occupavano involucri di ferro a forma di autobus, metropolitane e treni. Qualcuno aveva delle cuffie, qualcuno un libro, qualcuno stava solo fissando il nulla in attesa del momento giusto per uscire.

Famelico, intanto, l’avvoltoio si nutriva. Come se non avessero un collo mobile, milioni di persone camminavano in tutte le strade delle grandi città del mondo, camminavano guardando dritto, all’altezza dei propri occhi. Avevano perso la speranza, e la voglia di guardare in alto, verso il cielo. E così si negavano la possibilità di notare gli avvoltoi, che proprio lì, alla luce del sole, facevano i loro porci comodi. Non capivano che gli avvoltoi si spostano sempre per un motivo. Non guardavano nemmeno a terra, dove gli avvoltoi, appollaiati, mangiavano.

Famelico, intanto, l’avvoltoio si nutriva. L’umanità moriva ogni giorno, in ogni grande città. Famelico, intanto, l’avvoltoio si nutriva. Si nutriva della carne dell’umanità che stava morendo.

Testo: Andrea Cobelli
Immagine: Bernardo Anichini

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