Sono seduti lì, da quanto? Da fuori il tempo è facile da misurare. Il tempo, per noi, è chiuso dentro un display del telefono, negli orologi.
Lui non ha un orologio. Gli pesa, ha le ossa deboli, stanche. Da quando è in pensione si regola con i mu- golii: se lo stomaco brontola, è ora di andare a pranzo.
Lei si regola col sole. Lo ha imparato da bambina, col nonno, nei campi. Anche in questa giornata piena di nuvole, le basta la luce. Per sapere l’ora esatta? No. Per sapere quando è ora per lei, senza curarsi di sapere che ora è davvero, nessuno la aspetta, non ha molto da fare, non ha figli né nipoti.

Però ora sono vicini. Si conoscono? In qualche senso, sì. Si vedono, con la coda dell’occhio. Quella è la sua panchina. Di lei, da sempre. Prima di pranzo la trovi lì, all’ombra: è molto calorosa, ha le braccia sco- perte nonostante il fresco e le mamme che urlano ai figli di coprirsi, e non sudare, che poi una gelata e ti ammali.
Lui è freddolosissimo, ha un giaccone più adatto all’inverno che all’autunno. Lei lo trova un po’ importuno: perché venire lì, sulla sua panchina, ogni giorno?
Lo sente ansimare: ha il respiro affannoso, i bronchi rovinati. E dire che non fuma. Eppure ogni tanto fruga nelle tasche della giacca, poi fa un’espressione strana, di rinuncia, e lascia stare, porta per un secondo la mano alla bocca, si carezza il mento. Forse fuma ma evita finché è vicino a lei? Questo sarebbe un bel gesto, sarebbe una galanteria.

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È iniziata una pioggerella appena percepibile. Lui rabbrividisce, ma non si alza. E restano lì. Ore, minuti? Più fermi che possono, a guardare qualche ciclista, qualche rifugiato che dorme sotto gli alberi, chi ha saltato la scuola. Una schermaglia d’amore. Un gioco di specchi: solo quando uno dei due si muove (riavviare i capelli: lei; accarezzarsi le braccia per scaldarsi: lui), l’altro si concede un movimento di rimando.
Lo stomaco di lui lancia il segnale: brontola. Lei quasi sorride, lui non sa resistere alla fame, ora si alzerà come sempre. Il viso di lei si contrae: cosa la irrita? L’intimità che si è appena stabilita tra loro, nel momento in cui ha pensato ecco, si alzerà come sempre? Oppure la infastidisce il fatto che lui non si muova? È la prima volta, da quando questa strana frequentazione va avanti, che lui resta fermo dopo il brontolio.

Lei si sposta verso l’esterno della panchina, si ritrae in se stessa, le sembra di aver subito una violenza. L’orgoglio non la frena: si alza lo stesso, per prima. La pioggerella è già finita, un adolescente le passa davanti, fa motocross con un hoverboard e manda messaggi dal cellulare.
Non è più il mio tempo, pensa lei. Si lascia sfuggire un’occhiata a quell’uomo seduto sulla sua panchina: che gioco stai facendo, non è più il nostro tempo. Peccato.

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Prima di allontanarsi, si volta ancora verso di lui, agita la mano come a scacciare le mosche. Lo sta redarguendo. Come se fosse stato lui a pensare, a sussurrare: peccato. Non dire stupidaggini, dice il gesto di lei.
Lui è lento di riflessi, e forse anche nei ragionamenti. Coglie a fatica il gesto, ma quando alza la testa i loro sguardi si incrociano. Lei ha gli occhi nocciola, gli sembra, o comunque scuri, o neri, la sua vista peggiora, ma si sforza di osservare: gli occhi di lei, non sono la cosa più importante? Non si inizia sempre perdendosi occhi negli occhi? Lui di certo li ha scuri, ma neri, marroni, nocciola? Li tiene così strizzati, per mettere a fuoco, che lei non saprebbe dirlo.
Lui ancora la fissa. Lei gli dà le spalle. Si allontana. Ravvia di nuovo i capelli, radi ma voluminosi, li tinge di biondo. Sente che lui la guarda. Forse non la vede già più, ma questo non conta: protende il busto in avanti, strizza ancora di più gli occhi, e continua a guardarla.

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Testo: Simone Giorgi
Illustrazioni: Chiara Ficarelli

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