incompiuta

Ogni sera mi chiedeva di rileggerle quello che avevo scritto.
Dovevo stampare in due copie. Una per lei, una per me. Leggevo piano, e lei mi fermava spesso. Di tanto in tanto mi faceva notare delle incongruenze. Correggevo a matita sulla mia copia, ma non c’era scampo: per ogni errore, mi faceva immediatamente ristampare tutto. Il mio tavolo, nell’angolo della stanza, era coperto da pile di fogli. Il suo era lindo. Tutte le volte che mi dava una correzione diceva la stessa cosa, guardandomi con un sopracciglio alzato: “Questo posso buttarlo?”.
Non era mai una domanda. Scagliava la risma di fogli ancora calda nel cestino accanto alla sua poltrona, e mi fissava dietro le lunghe ciglia, raggrumate di mascara, in attesa di una nuova copia. Il mattino dopo, appena alzata, prendevo il cestino e andavo a svuotarlo nei grandi contenitori fuori, sul ciglio della strada. Dopo colazione mi spiegava il compito del giorno.

All’inizio facevo fatica a capire. Utilizzava dei modi di dire antiquati, scambiava le preposizioni e a volte ne infilava di altre: “Potresti accostare la porta, di tutta cortesia?”
A ogni richiesta particolare diventava uno zucchero: “Come mi sei preziosa”, “Assicurami che non ti è di disturbo”.
Quando la sua agente mi aveva incontrata per propormi di scrivere un profilo su di lei, aveva accennato al fatto che molte altre giornaliste se ne fossero andate dopo un’ora di conversazione.
“In un certo senso – e qui aveva fatto un gesto ampio con la mano che reggeva la sigaretta – potrebbe considerarla una sfida professionale”.
Alla parola sfida, un velo rosso era calato sui miei occhi: l’articolo era diventato un libro, e la sua villa anni ’30 nel cuore della città era diventata anche la mia.

Il primo giorno cercai di mettere subito in chiaro le cose. Le dissi come volevo impostare il lavoro, se poteva raccontarmi qualche aneddoto significativo. Mi rispose che non avevo capito niente e non mi raccontò nulla di sé.
In realtà, non era affatto interessata a parlare del suo passato. Ogni mattina mi accoglieva dolcissima, mi passava le lunghe dita rugose sul polso e mi chiedeva come avevo dormito, poi mi dettava l’agenda della sua giornata.
Sarebbe andata in lavanderia. Dopo avrebbe portato il suo gatto dal veterinario. L’aveva sterilizzato un anno prima, ma voleva essere sicura che l’operazione fosse andata a buon fine, e ogni mese lo portava per un controllo di infertilità. All’inizio commentavo con una qualche battuta le sue manie; era pur sempre il mio libro. Lei sorrideva, con lo sguardo lontano, e mi chiedeva quanti anni avevo.
Frustrata da questi programmi, lasciavo correre l’immaginazione, e quando le rileggevo un passo di cui andavo fiera, in cui sembrava che la sua seduta settimanale per taglio e piega fosse stata un evento trascendentale in cui sia lei sia il parrucchiere erano arrivati a conclusioni fondamentali sulle rispettive vite, lei mi fissava a lungo, in silenzio, aspettando che aggiungessi qualcosa.
Dopo tante mie spiegazioni traballanti, avevo iniziato a ricambiare il silenzio.
Borbottavo tra me “Va bene, cambio”.
Lei si toglieva un grumo di mascara dalle ciglia, sfogliava la sua agenda, e diceva solo: “Meglio”.
A me si accartocciava lo stomaco.

Tutte le persone che aveva intorno l’avevano lasciata crescere addosso a loro come edera; ora, aveva quasi ottant’anni.
L’avevo sentita più volte lamentarsi del suo entourage al telefono con dei conoscenti. Il giardiniere era uscito un’ora prima per impegni famigliari, e lei aveva dovuto cercarsi da sola i fiori più adatti da donare a un’amica in visita. Il conoscente con cui si lamentava era l’amministratore della villa.
Scrissi questa storia, telefonata inclusa. Dopo averla letta sentii il gelo che conoscevo bene calare nella stanza, ma tenni fissi gli occhi sulla pagina e andai avanti a leggere. Il té con l’amica, i pettegolezzi infarciti dei suoi “di tutta cortesia”, e “quanto mi sei preziosa”.
Il sonnellino e poi la cena, asparagi bolliti e uova. Teneva il viso girato verso di me, ne ero sicura: in genere, il suo sguardo esercitava un’attrazione irresistibile, ma cocciuta continuai a girare i fogli.
La crema per le mani, un bicchiere di amaro in salotto. Un’unghia spezzata.
Qualcosa nel silenzio della stanza mi fece pensare che le si fosse gonfiata la faccia. Finalmente, con la pelle in fiamme, parlò.
Disse: “Questo ti sembra buono?”

erica molli

La mattina seguente svuotai il cestino della carta, ma tenni il foglio con l’aneddoto del giardiniere. Dopo colazione entrò nello studio, profumatissima. Si spruzzava tutte le mattine una particolare colonia sui capelli, ancora morbidi nonostante l’età.
Mi salutò con calore, come avesse perdonato, o dimenticato, la mia piccola ribellione. Per tutta la giornata fu adorabile. Si informò sui miei progetti una volta finito il libro su di lei.
“Magari un altro bel profilo? Ti ci vedo portata.”
Non era però molto chiaro quando sarebbe finito il libro. Mi sedevo alla scrivania di fronte alla sua, lei sfogliava la sua agenda. Non riuscivo a fare domande, ammaliata dal suo buon umore. Era intelligente, aveva senso dell’umorismo.
Le raccontai che a colazione mi ero ingozzata di marmellata di fragole e avevo temuto di stare male, lei scoppiò a ridere; una risata accogliente, come a dire “Guarda che buffa questa ragazza che ho qui davanti”.

Una sera in cui aveva buttato via solo due bozze mi regalò una sua spilla, con una pietra al centro, nera come i suoi occhi. Non aveva figlie o nipoti a cui lasciarla. Mi si spezzò la voce nel ringraziarla.
Qualche giorno dopo, mi aspettava già seduta alla scrivania quando rientrai con il cestino della carta in mano. Succedeva molto raramente che fosse pronta prima di me; teneva lo sguardo fisso sulla sua agenda, e non alzò la testa quando appoggiai il cestino sotto il suo tavolo e andai a sedermi.
“Ti ricordavi del mio appuntamento con l’architetto per la piscina?”
“Vagamente.”
“Bene. Perché io no. Mi sapresti spiegare perché non me l’hai ricordato, di tutta cortesia?”
Aprii la bocca per protestare, ma non c’era niente che potessi dire: era colpa mia. Non facevo il mio lavoro lì da diverso tempo; forse non l’avevo mai iniziato. Ero diventata un’espansione della sua persona, che svolgeva ogni mansione senza domande; non stavo scrivendo un libro sulla sua vita, la stavo vivendo e mi stava male addosso.
Non risposi, e lei abituata ai miei silenzi ricominciò a sfogliare la sua agenda. Sembrava più anziana che mai, e allo stesso tempo destinata a vivere per sempre.
“C’è solo un modo di fare le cose, cara…cara…cara…”
Sbatté leggermente le palpebre, mi scacciò con la mano e passò a pianificare i suoi esami del sangue, con la sua voce fredda, impostata.
Forse era solo vecchia; oppure, non ricordava il mio nome. Non si vergognava di condividere i più intimi dettagli della sua vita con me perché io non avevo nome.
Andai in bagno, dove afferrai un rotolo di carta igienica e lo strinsi fino a stracciarlo. Mentre sminuzzavo i fogli, uno dopo l’altro, e li vedevo cadere dondolando sul pavimento, ripetevo a bassa voce: muori, muori, muori.

Presi a modificare un particolare della sua giornata alla volta. La manicure scambiata con la ceretta; il riso in bianco al posto del petto di pollo. La prima settimana si innervosiva quando, nella fase di rilettura serale, riconosceva i cambiamenti. Mi faceva notare che ero distratta, che stavo perdendo la concentrazione. Normalmente mi sarei sentita in colpa dopo un’osservazione del genere, o sarei andata ancora più in confusione. Ma la rabbia era ancora fresca, riuscivo a mantenerla viva e accesa ricordandomi il suo tono gelido, le parole di troppo che infilava nella frasi, le malignità che riferiva sulle persone intorno a lei.
La seconda settimana cominciò a capire che quelle variazioni non erano sviste. Avevo allargato la narrazione, eliminato i particolari insignificanti su cui insisteva così tanto; le avevo donato scene nuove di zecca, le avevo messo in bocca parole che non aveva mai detto, anche se verosimili. Non le piaceva affatto la direzione in cui stavamo procedendo, ma non aveva ancora trovato il modo di contrastarmi.
I suoi sermoni, le sue domande retoriche volte a trovarmi impreparata non avevano più effetto. I suoi tentativi di farmi sentire piccola, inadeguata, troppo giovane. Sentivo lo stomaco chiudersi come nei mesi precedenti, quando le sue parole colpivano nel segno e mi convincevano che stavo sbagliando io. Ancora adesso non so se fosse stata la faccenda del giardiniere, o dell’architetto della piscina, ma qualcosa aveva rotto gli argini, e l’odio fluiva libero, mi infiammava le vene; e quando lo stomaco si chiudeva, lasciavo che il suo scontento mi scivolasse oleoso lungo il corpo.

Foglio dopo foglio, le sue sfuriate contro il personale, l’insopportabile abitudine di sigillare le finestre, le sottili manipolazioni comparivano davanti ai suoi occhi, e nuove rughe le comparivano sulla fronte nello sforzo di non urlare, di non perdere la sua compostezza di fronte a me. Ormai diceva apertamente e con estrema calma che quello non era il mestiere adatto a me, che alla fine si sarebbe visto cosa sarebbe saltato fuori.
Disse che ero senza ombra di dubbio la peggiore giornalista della storia, e mi impegnavo per darle ragione.

Quella notte non riuscii a chiudere occhio, continuavo a girarmi nel letto. Il suono della sua voce, l’odore di cui erano intrisi i suoi capelli bianchi, mi passavano per la testa e mi facevano sobbalzare di continuo. La piccola vendetta sulla sua routine quotidiana non mi bastava più. La polvere danzava nel taglio di luce della porta, al mio ingresso. Lei dormiva profondamente, cullata da un miscuglio di sonniferi realizzato su misura. Afferrai uno dei cuscini abbandonati contro la testiera del letto e senza più esitare, stremata, glielo appoggiai sulla faccia, sempre immobile, liscia come cera. Mosse soltanto un dito; un riflesso, più che altro, dentro di lei non era rimasto più niente.

Quando glielo lessi la sera dopo, finalmente urlò. Avrebbe chiamato la polizia, ero pazza, ero p a z z a. Ciocche disordinate di capelli le cadevano sul volto mentre agitava le braccia. Si era alzata con uno stridìo della sedia, e quasi inciampò nel cestino della carta mentre correva fuori per gridare aiuto.
Raccolsi tutti i miei fogli, e li buttai nel cestino. Tirai fuori dalla tasca il foglio del giardiniere, lisciandolo per bene, e glielo lasciai sulla scrivania. Uscii fuori – lei ancora urlava al piano di sopra, forse al telefono con la polizia o con la sua agente – con solo una valigia e la spilla, che buttai sul marciapiede e calpestai, frantumando la pietra nera. Fermai un taxi, respirando rumorosamente. Avrei messo più chilometri possibili tra me e quella donna, anche se avrebbe significato lasciare la città, ricominciare altrove.

“Dove la porto, signora?”
“Alla stazione dei treni. Prenda la tangenziale, di tutta cortesia.”

Testo Anna Maniscalco
Illustrazione Erica Molli
Lettura Veronica Rivolta

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