Avevo conosciuto Chiara a un concerto. Ci scrivevamo in chat da qualche mese e non l’avevo ancora mai vista dal vivo: era amica di alcuni miei amici e abitava molto lontano. Era stata lei a contattarmi dato che aveva visto delle mie foto che avevo scattato durante una competizione di gatti.

Mi raccontò che lei aveva un gatto nero, non bellissimo ma a cui era molto affezionata. Da piccolo il micio si era divorato il fiocco di un regalo di Natale e questo gli aveva devastato lo stomaco. Ora il gatto aveva seri problemi di digestione, defecava male e orinava ancora peggio dato che soffriva anche di calcoli alla vescica.
“Sono come dei cristalli”, mi scrisse.

Mi piacque molto l’immagine del suo gatto mentre pisciava diamanti. Tuttavia, non aveva ancora perso il vizio di mangiarsi roba non commestibile e quindi il rischio che il suo stomaco collassasse di nuovo era sempre dietro l’angolo.

Quando andai al concerto non avevo chissà quali aspettative. Purtroppo mi ritrovai ad andarci con un certo Vincenzo, un amico di un mio amico che si era aggiunto all’ultimo momento. Vincenzo, come venne fuori durante il viaggio, aveva frequentato Chiara per qualche mese. La loro breve storia si interruppe quando lui tirò un calcio al gatto.
“Perché lo hai fatto?”, gli chiesi.
“Mi stava sul cazzo”, fu la sua risposta.
Non avevo mai capito fino in fondo che tipo di persona fosse Vincenzo. Collezionava rami secchi e aveva l’hobby delle macchine telecomandate. Di tanto in tanto si faceva fare una sega in qualche centro massaggi anche se il suo obiettivo era trovare il vero amore.
Non ero contento che ci fosse anche lui quella sera. Temevo che Chiara se la potesse prendere a male. Inoltre non avevo capito se Vincenzo avesse ancora delle mire su di lei: come ho detto, era un tipo molto strano. Una volta arrivati nel locale ci sedemmo a un tavolo a bere una birra. Lui sembrava un po’ su di giri e avevo paura che la birra a stomaco vuoto potesse portarlo a compiere qualche sconsideratezza.
“E così ci vuoi provare con Chiara”, mi chiese a un certo punto. Aveva messo su uno sguardo da matto.

“Ma se nemmeno la conosco”, mi giustificai.

Appena entrata la riconobbi: era proprio come dalle foto che avevo visto sul suo profilo Facebook. Anche lei mi riconobbe subito. La magia dei social network. Aveva una voce molto squillante, quasi in falsetto, come quando saluti qualcuno per ridere. Però in quel caso non c’era nulla da ridere: Chiara vide che al tavolo con me c’era anche Vincenzo e la cosa, come previsto, la fece irrigidire molto.
“E questo stronzo cosa ci fa qui?”, mi chiese con la sua voce pazzesca.
Era una bella domanda a cui non seppi cosa rispondere.
“Ti vedo bene – disse Vincenzo come se nulla fosse – come stai?”
Chiara senza dire nulla mi prese per un braccio e mi trascinò via. Che carattere! Ci lasciammo quell’altro alle spalle e ci infilammo nel cortile del locale a chiacchierare con calma. All’improvviso i suoi occhi divennero molto dolci. Mi disse che aveva dovuto guidare per due ore per raggiungere il locale e che in autostrada aveva trovato un incidente.
“C’erano anche due cadaveri per terra – mi disse guardandomi con affetto – un sacco di sangue”.
Le dissi che anche io una volta in Calabria avevo visto dei morti per strada, due motociclisti per essere precisi.
“Hai visto il sangue? – mi chiese –voglio dire, c’era molto sangue?”
“Sì, c’era una gran pozza di sangue”, le dissi.
Erano passati diversi anni e non ricordavo con esattezza la scena, però immaginai di sì, che ci fosse stato del sangue.
Chiara sembrò soddisfatta dalla mia risposta. Mi disse che qualche mese prima aveva assistito a uno scontro frontale sulla statale che portava al suo paese. Tutti morti, un sacco di sangue.

“Ti mostro le foto”, disse tirando fuori lo smartphone.

Per farla breve, quella sera scoccò la scintilla e  infatti decisi che sarei andato a trovarla a casa sua due settimane più tardi, sobbarcandomi il viaggio. Abitava a quasi trecento chilometri di distanza!
Tornando a casa dal concerto quella sera, Vincenzo sembrò  essersi arreso all’evidenza dei fatti.
“Vi auguro un futuro felice insieme”, disse guardando fuori dal finestrino.
Puzzava di birra da far schifo e si era pisciato lungo tutto il lato destro dei pantaloni. Con lui avevo chiuso.
Due settimane dopo, come previsto, mi ritrovai sul treno che mi avrebbe portato nel paese dove abitava Chiara.
“Ti porto in un bel posto a mangiare – mi disse dopo essermi venuta a prendere alla stazione – e poi andiamo a casa e ti faccio conoscere il mio gatto.”
Il ristorante era un circolo ricreativo per anziani, arrampicato su per una collina. Il cameriere, un vecchio sulla settantina, elencava il menu nella maniera più spiccia possibile. Ci spiegò che ogni venerdì sera c’era il menu tedesco, comprensivo di wurstel e crauti.
“Molti vengono qui per questo, è una proposta che piace”, disse senza troppo entusiasmo.
Al tavolo vicino un vecchio ruttò. Alcuni risero. Io ordinai i tortelli.
“C’è mica del pepe?”, domandai.
Il pepe mi provoca da sempre un’infiammazione istantanea e, a costo di fare la figura del noioso, volevo assicurarmi che nel mio piatto non ce ne fosse.
Il cameriere rispose alla mia domanda con un risucchio fra i denti e filò via.
“Sai – disse Chiara una volta sparito il cameriere – credo di aver sentito qualcosa per te nel momento in cui mi hai scritto che al liceo avevi il vizio di mangiarti il maglione.”
Una sera, mentre ero in vena di confidenze, mi lasciai andare a questa confessione via chat: verso i quindici anni presi il vizio di brucare i peli della lana del mio maglione preferito. Banchettai con quel coso per l’intera durata dell’anno scolastico e verso aprile notai che in alcuni punti la trama della lana si era vistosamente assottigliata. Per certi versi mi comportavo come quegli svitati che si vedono in programmi come “Io e la mia ossessione”, durante i quali la gente confessa in lacrime di divorare interi pneumatici.
La questione in fondo era molto semplice: brucare il maglione mi dava quella serenità che la complicata età dell’adolescenza teneva da me ben distante. A dispetto delle critiche e sberleffi di cui ero bersaglio, continuai a mangiarmi la lana fin verso il compimento dei sedici anni.
Tuttavia Chiara parlava con quel suo tono così dolce e rassicurante da farmi credere sul serio, almeno per un secondo, che il fatto di mangiarmi il maglione fosse una cosa attraente.
“Be’ – dissi – mi fa piacere. All’epoca per colpa di quel tic ricevetti molti pugni.”
“A me sembra una cosa molto tenera, mangiarsi il maglione”, disse.
Non sono un grande sciupafemmine, ma a volte capisco quando devo fare i gesti giusti. A sorpresa, tirai fuori dallo zaino il famoso maglione, una specie di cardigan di lana grigia, sformato e tutto infeltrito, che ero andato a recuperare a casa dei miei apposta per offrirglielo in dono. Alla vista di quella roba, Chiara emise uno squittio di gioia.
“Lo devi indossare! Ora!”, disse.
Le urla di Chiara attirarono l’attenzione dei vecchi del tavolo vicino. Dai rutti erano passati alle bestemmie, stimolati anche da una partita a carte sempre più aggressiva. Ora mi stavano fissando.
“Avanti, indossalo!”, gridava Chiara.
Mi tolsi il maglione e mi infilai quel cardigan vecchio, impregnato dell’essenza alla lavanda che mia madre usava per tenere lontane le tarme dagli armadi.
“Ora mangialo! Dai, solo un po’! – diceva Chiara – voglio vedere come lo mangi! Mangialo!”
Non mi andava di mangiare il maglione. Non lo facevo più da molti anni e il sapore e la consistenza di quella lana mi ricordavano i periodi bui della mia adolescenza.
Tuttavia cedetti all’insistenza di Chiara e mi presi un lembo del cardigan e iniziai a brucarlo. Chiara rise e prese a battere le mani.

“I tortelli”, disse il cameriere gettandomi davanti il piatto.

 Sulla strada per andare verso casa di Chiara, iniziai a sentire i primi effetti del pepe: vesciche sulla lingua, acidità di stomaco e un forte prurito diffuso per tutto il corpo. Una volta arrivati il prurito si era concentrato soprattutto nella zona del pube e provavo un forte impulso a grattarmi.
Chiara abitava in una villetta tutto sommato graziosa. Al piano terra ci viveva un tipo a cui erano morti i genitori: il giorno dopo il funerale si era comprato un biliardo da mettere in salotto. Al piano di sopra stava invece Chiara: quando aprì la porta una puzza di lettiera di gatto mi penetrò nelle narici. In mezzo al soggiorno, in penombra per via delle luci a basso consumo, c’era Fonzie, il gatto che dovevo conoscere. Si trattava di un gatto nero normalissimo, con la pancia rasata perché da poco gli era stata fatta un’ecografia: aveva ingerito della plastica e bisognava capire se fosse quello il motivo della sua recente stitichezza. Fonzie mi venne incontro annusandomi le scarpe, poi si ritirò sul divano fissandomi.
“Vieni – disse Chiara – andiamo a vedere se ha fatto la cacca”.
 Purtroppo Fonzie non aveva fatto la cacca e questo gettò un’ombra di preoccupazione sulla serata.
“Vedrai – le dissi – la farà più tardi”.
“Ma già ieri non l’ha fatta! – disse – non può stare troppo tempo senza farla! “
Non sapevo cosa dire. Provai a fare mente locale sui rimedi che di solito metto in pratica quando mi capita di essere stitico ma non c’era nulla che potesse andare bene per un gatto.
Ci sedemmo sul divano e Chiara cercò di distrarsi mostrandomi uno dei suoi libri preferiti: la grande enciclopedia degli animali.
“Vedi – disse – se guardi sotto la voce balena hanno messo la foto di una balena morta. Non ti sembra assurdo? Tutti gli altri animali sono ritratti da vivi. La balena invece è morta, ci sono degli uccelli che la stanno mangiando. È spiaggiata. Guarda qua, tutto il sangue che cola”.
In effetti la scelta di inserire quella foto per raffigurare la balena era discutibile, però non riuscivo a essere così colpito da quella svista editoriale quanto invece sembrava esserlo Chiara.

“È assurdo – dissi – davvero assurdo”.

Nel frattempo, mentre ragionavamo sulla balena, Fonzie si era alzato ed era andato a fare la cacca. Lo seguimmo nel gabinetto dove aveva la lettiera e assistemmo al prodigio. Chiara cacciò un urlo di gioia e mi si avvinghiò al collo baciandomi. Mi infilò addirittura la lingua nell’orecchio! Cercai di spostare la situazione che si stava venendo a creare in salotto, quando Chiara mi bloccò.
“Aspetta – disse sovraeccitata – prima devi metterti una cosa”.
Corse in camera da letto e tornò con una roba appallottola fra le mani, di colore arancione.
Quando me la srotolò di fronte agli occhi capii di cosa si trattava. Era un costume da gatto.
“Ti andrebbe di mettertelo? – mi chiese – voglio vedere come ti sta”.
A dirla tutta, non mi andava di vestirmi da gatto. Era un costume in puro acrilico che si era fatta spedire dalla Cina e puzzava di roba chimica tanto da togliermi il fiato. Mi disse che anche lei aveva un costume del genere e che in inverno ce li saremmo messi per stare al caldo sul divano.
“Al caldo, al caldo, al caldo”, disse ripetendolo tre volte. Chiara aveva questo problema: ogni tanto le si incantava qualcosa nel cervello e ripeteva alcune parole tre volte di seguito. Penso che si trattasse in qualche modo di un gesto scaramantico.

Come ho già detto, non sono mai stato un grande sciupafemmine. Certe cose, come spogliarmi o essere il primo ad allungare le mani, sono gesti che ancora mi costano fatica. Dovermi spogliare in quel salotto semibuio, mentre l’odore della cacca del gatto si spandeva per casa, (e con il proposito di infilarmi dentro un costume da gatto), mi fece scendere di molto l’entusiasmo. Chiara si sedette sul divano con le mani sulle ginocchia, fremente di eccitazione per il mio travestimento. Domandai se potevo tenermi i vestiti e infilarmi così dentro il gatto. Mi fu negato. Incespicai levandomi i jeans. Mi levai anche il maglione mangiucchiato che non mi ero ancora tolto dal ristorante. Restai in canottiera, calze e mutande. Domandai se almeno quelle robe potevo tenermele. Chiara fece segno di sì con la testa. Mi infilai dentro il costume e la puzza di poliestere mi fece perdere la ragione. Fu come entrare dentro una vasca di deprivazione sensoriale.

Quella notte non riuscii a prendere sonno. Chiara dormiva abbracciata al gatto, dandomi le spalle. Stare a letto senza riuscire a dormire è una tortura. Inoltre il pepe continuava a darmi il tormento: l’infiammazione si era concentrata tutta, come temevo, sul pene, facendomelo gonfiare come il naso di un ubriacone. Mi alzai cercando le ciabatte, poi mi ricordai che Chiara me le aveva fatte mettere nell’armadio.
– Il gatto di notte se le può mangiare – mi disse.
Rinunciai alle ciabatte per timore che l’anta dell’armadio potesse cigolare.
Andai in salotto, dove intanto all’odore di cacca si era aggiunto un forte sentore di piscio. Piscio con cristalli. Mi sedetti sul divano e al buio, tastando, trovai il mio maglione. Lo presi in mano, me lo portai alla bocca e brucai la lana fino a quando non spuntarono le prime luci dell’alba.

Testo: Marco Prato
Immagini: Bernardo Anichini
 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *