Ancora oggi accendo il televisore e mi aspetto di ritrovarci dentro i Fenucci, in uno di quegli scintillanti spot Barilla che ritraggono famiglie spaventosamente lisce e perfette.

Ve li sarete ciucciati circa un milione di volte: lui che torna da lavoro stanco e pulitissimo – la giacca sottobraccio, cravatta per niente allentata. Come prima cosa prende in collo il figlio, per fargli compiere un paio di capriole aeree, con estremo sollazzo del pargolo.
Dopo aver esercitato la tradizionale e sempre appagante routine acrobatica, l’uomo si accorge della presenza della moglie ai fornelli. Ne ammira l’eleganza – casalinga eppur scrupolosa – la voluttuosità delle forme, la freschezza della pelle, e quella perfetta intersezione dei fianchi che cade a pennello fra maternità e condiscendenza carnale, che lo porterebbe a possederla direttamente così, sui fornelli roventi, sotto gli occhi mai così attenti del figlioletto, se soltanto si trattasse di qualcosa di più spinto della reclame di un piatto di pasta.
Ma stiamo pur sempre parlando di una pubblicità da prima serata – santo Iddio –  non aspettatevi niente di più eccitante di una spaghettata a tre, consumata in allegria sopra uno scomodissimo tavolino basso in finto stile giapponese.
Nessuno si sporcherà i vestiti, non ci saranno litigi o pietanze assaporate in silenzio, e non rimarrà incastrato fra i denti alcun tipo di fastidiosa particella alimentare o schifezza affine.

L’ho capito subito che i Fenucci erano una famiglia Barilla. Giovani, sodi, borghesi, successuosi per discendenza.
Li incontri per la prima volta e già non vedi l’ora di riparargli lo sciacquone del cesso, o di prenderti cura dei pesci rossi, mentre loro se la stanno spassando alle Maldive.
La Trinità del benessere che non lesina mai un sorriso, una piacevole chiacchierata da pianerottolo o ascensore. Marito, moglie, figlio di sette anni. Tutti e tre visibilmente sani, scandalosamente belli, puliti, gentili, disponibili… potrei andare avanti così per ore.
Quando ho a che fare con certi individui mi viene sempre da immaginare Dio in coda dal parrucchiere, immerso nella lettura di una rivista patinata di lifestyle, in attesa che arrivi il suo turno.
Nella visione, Dio rimane immensamente affascinato dalla foto di una particolare linea di abbigliamento per tutta la famiglia. Per questo motivo, decide di ritagliare la foto e di trasformare i modelli in posa in persone “umane”, di quelle che fanno la spesa all’ipermercato, vanno al cinema la sera di Natale e tutto il resto.
Vi sembrerà sciocco, lo so, ma forse avreste pensato la stessa cosa anche voi, se vi foste imbattuti nei Fenucci, quella vigilia di Pasqua 2009.

Ero uscito per buttare la spazzatura in tuta e ciabatte. Di solito non mi faccio vedere in giro in queste condizioni, ma l’appartamento di fianco al mio era sfitto da un paio di mesi, ormai, e a quell’ora le vecchie dei piani inferiori si tappavano in casa per scampare ai ladri, o ai licantropi, chissà.
L’ascensore era occupato. Così ho atteso come un fesso sul pianerottolo, in tuta e ciabatte, per circa una mezza eternità.
Quando stavo per averne abbastanza, la porta si è spalancata d’improvviso, irraggiando il pianerottolo di una luce generosa. Ok, forse sto un po’ esagerando, lo ammetto, ma nel mio ricordo quella luce esiste davvero, e forse c’è anche un sottile sottofondo di archi.
Per primo ho visto uscire un bambino. Biondo, secco, piglio disinvolto. Una promessa di conquista negli occhi di un blu paralizzante.
Portava in braccio due scatoloni piuttosto ingombranti per il suo figurino, eppure non tradiva alcun segno di fatica o sforzo, se non nel lieve barcollare con le braccia e il torace.
“Ehilà”,  mi salutò, con il tono che potrebbe avere un tuo superiore in ufficio. Uno di quelli che appena ti incontra dice: “Diamoci pure del tu”.
“Sono Stefano – aggiunse tendendomi la mano  – io e i miei genitori abitiamo qua adesso”.
Frastornato, strinsi la sua piccola mano ossuta, e non trovai di meglio da dire che un “benvenuto” tutto smangiucchiato.
“Scusa se abbiamo occupato l’ascensore per tutto questo tempo. Sai, i traslochi…”
“Eh. Già…”
“Meglio che mi sbrighi con questa roba”, e, spinti i due scatoloni con un piede, si rituffò dentro.
“Posso…aiutare?”, chiesi affacciandomi dentro la cabina dell’ascensore affollata di scatole, scatoloni e altri oggetti impacchettati.
“Magari! Cielo, ci è capitato proprio un vicino squisito. Tu abiti qui accanto, no?”
La domanda non mi permise di valutare la natura più o meno sarcastica della considerazione precedente sul vicino squisito. Iniziai subito a liberare la cabina. Anche Stefano ci dava dentro, forse più di me.
“Dove sono i tuoi?”
“Oh, Mamma è di sotto, aspetta che finisca qua per salire con il secondo carico, mentre Papà sta cercando parcheggio. Cielo! Da queste parti posteggiare è un’agonia! Lo sai che dove abitavamo prima avevamo un giardino in cui entravano trenta macchine tutte in una volta?”
“No, non lo sapevo. Dove abitavate, in un golf club?”
“Qualcosa del genere…”,  rispose lui con un tono per niente ironico. Attesi spiegazioni, ma non aggiunse altro.
Finimmo di scaricare la roba. Stefano chiuse la porta e rimanemmo in attesa. Mano a mano che l’ascensore risaliva il palazzo iniziai ad avvertire un’inspiegabile vampata d’impazienza.
Ci ripenso oggi e li sento bene, non solo gli archi, ma anche i tromboni e un’orchestra intera. Quando la porta si aprì il tripudio era assordante, c’è mancato poco che non mi tappassi le orecchie e mi mettessi a urlare.
Quella donna era semplicemente…non saprei…una donna eccessivamente bella per essere guardata come si fa con le persone normali, ecco. Dovevi metterti una mano davanti agli occhi e poi, con discrezione, aprire delle fessure fra le dita e sbirciarla con il doveroso riguardo. Alta, bruna, occhi azzurrissimi che ti tagliavano in due, non appena il ciuffo li scopriva.
Anche a corpo era messa bene, ma non ho mai osato studiarlo approfonditamente. Mi sarei sentito uno squallido peccatore.
All’inizio la donna sbuffò, osservando sconsolata i cumuli di cose stipate attorno a sé. Il sospiro le scostò il ciuffo dagli occhi, rivelandola in tutta la sua bellezza, discreta ma pur sempre granitica, impossibile da scalfire.
Quando si accorse della mia presenza, però, distese il volto per aprirsi in un sorriso regale.
Mi salutò con l’allegria che si riserva a un vecchio amico e, dopo aver chiacchierato del più e del meno, la aiutai a sbarazzarsi del secondo carico.
Nel mentre era salito per le scale anche il marito, un uomo forte, abbronzato e dai capelli biondicci.
Mi salutò anche lui con un “Ehilà” e dopo essersi presentato (“Piacere, Fenucci”), mi appioppò una pacca energica sulla spalla.
Non ho mai capito che lavoro facesse. Si trattava di qualcosa che lo metteva nella condizione di definirsi “un creativo”.
Quando parlavi con lui ti studiava con uno sguardo che avrà impiegato anni e anni ad architettare: fisso negli occhi, non perdeva il contatto visivo finché non avevi smesso di parlare, mentre di tanto in tanto increspava impercettibilmente le labbra, per manifestare una sincera partecipazione.
Il guaio è che lo faceva sempre, che tu gli parlassi di una genocidio in Africa come del tempo.
Gli raccontavi del vicino che non raccoglieva le cacche del cane, e lui era lì, col suo sguardo da creativo interessato, a dimostrarti il suo infinito coinvolgimento per la questione.
Ma tutto sommato era un bravo cristiano, il Fenucci. Sorridente, profumava sempre di acqua di colonia di prima qualità e abbassava la serranda del garage con la giusta accortezza.
Quella sera andai a letto sereno. I miei ex vicini erano una coppia di alcolizzati che litigava in continuazione e ascoltava i varietà del sabato sera a un volume disumano.
Per quanto mi riguarda il mondo si divide in due macrocategorie: quelli che lasciano la porta dell’ascensore aperta quando escono – costringendoti a salire le scale con otto sacchi della spesa – e quelli che si assicurano sempre di averla chiusa alle loro spalle.
Mi sentivo protetto, con i Fenucci. Avevo riconosciuto immediatamente la categoria alla quale appartenevano e questo mi lasciava tranquillo. Non a caso dormii come un bimbo.

 

La mattina seguente, Pasqua. Non combinai granché. Per la maggior parte del tempo scrutai fuori dalla finestra bevendo innumerevoli caffè, poi nel pomeriggio mi occupai delle pulizie domestiche.
Prima di pranzo chiamai mia sorella, ma come al solito non si sentiva un accidente, se non una serie di voci alticce tutte attorcigliate insieme, così urlai nella cornetta “AUGURI GRAZIA!” più forte che potessi e ho riattaccai.
I Fenucci erano usciti di mattina presto. Li avevo sentiti attorno alle otto, otto e trenta, nel momento in cui ero alle prese col mio primo caffè.  Non rincasarono prima delle undici di sera, quando li udii armeggiare con le chiavi.
“Cielo che giornata! Sono esausto”, disse Stefano prima di entrare.
La madre lo invitò a parlare piano, e la porta si richiuse.
Finii di guardare un film – la storia di un adolescente interpretato da un tizio che avrà avuto almeno trent’anni – e mi preparai per andare a letto.

Probabilmente ero addormentato da diversi minuti quando feci caso ai colpi.
Uno Stonc stonc stonc distribuito a intervalli regolari piuttosto ravvicinati, accompagnati da un lieve cigolare. Dapprima attribuii la responsabilità alle tubature, o ai termosifoni. Il condominio è piuttosto vecchio e non capita di rado di sentirlo scricchiolare sotto il peso dell’età.
Era tutto quell’ansimare che venne dopo a non lasciar spazio a ulteriori fraintendimenti.
Stonc stonc “uhhh ahhh” ihc ihc “oooh oooh” stonc stonc.
Riflettendoci su, considerai che effettivamente la camera dei coniugi era esattamente dalla parte opposta della parete, e il letto era stato probabilmente piazzato in modo speculare al mio.
Avvertii un certo imbarazzo per loro. Voglio dire, non era proprio una gran figura per essere arrivati da così poco.
Cercai di coprire i suoni tirando le lenzuola fin sopra le orecchie. Dopotutto quanto sarebbe potuto andare avanti ancora? E poi con il bambino in casa sarebbe stato facile per loro accorgersi di essersi lasciati trasportare un po’ troppo.
Il problema fu quando gemiti e sospiri iniziarono ad articolarsi in parole e frasi.
Potevano passare i “Sssiii” e i “Non smettere”, ma quando lei gli chiese di fare i versi degli animali fu davvero mortificante. Il problema è che  lui si mise diligentemente a riprodurre prima un cane, poi un asino, concludendo la rappresentazione con un grugnito davvero ben fatto.
Le nostre stanze ripiombarono in un poco rigenerante silenzio post-coitum, tant’è che non riuscii a riprendere sonno, se non verso le prime luci del mattino.

 

Quando la signora Fenucci suonò il campanello nel primo pomeriggio di Pasquetta, mi parve tutto un brutto sogno, uno scherzo della fantasia.
Aveva in mano un vassoietto di coccio con sopra una scenografica fetta di torta cioccolato e pere.
Il suo sorriso cancellò ogni scoria della nottata precedente, almeno in un primo momento.
“Ho pensato che le avrebbe fatto piacere assaggiare un pezzo della torta che ho preparato per stasera. Sa, i miei cognati passano a visitare l’appartamento…”
Il fatto che una donna del genere potesse ricordarsi soltanto per un attimo che a pochi passi da casa sua esisteva un poveraccio come me, mi commosse.
Il fatto che avesse perfino rinunciato a un pezzo della sua meravigliosa torta, per fare contento lo stesso poveraccio, mi devastò una volta per tutte.
Stavo per inginocchiarmi e baciarle i piedi, ma poi la considerai una reazione eccessiva.
Avrei preso a picconate l’intera stanza da bagno dei Fenucci, solo per provare il gusto di aiutarli a riparare le cose danneggiate. Oppure avrei sporcato tutti i muri della casa, e li avrei ridipinti nel modo più pazzesco e sorprendente, senza risparmiarmi di affrescare i soffitti e decorare i battiscopa.

Mi informai sullo stato del trasloco. La signora mi disse che erano a buon punto. Il grosso del mobilio era stato portato la settimana precedente (in effetti avevo visto la ditta di traslochi alle prese con letti e divani) e con i primi carichi della vigilia di Pasqua sarebbero potuti sopravvivere per i primi tempi, in attesa di completare le operazioni quando il lavoro lo avrebbe permesso.
Ogni tanto mentre raccontava, i suoi gemiti di piacere risalivano la china dei ricordi come dei flash violentissimi, ma fortunatamente riuscivo a ricacciarli indietro nell’oblio della memoria con una certa facilità.
“E lei? Non fa nulla per Pasquetta?”
Mentii: “No. Ho da lavorare”
“Infatti ho sentito che era in casa e mi sono permessa di disturbarla.”
“Si, effettivamente i muri sono piuttosto sottili in questo palazzo. È molto facile rendersi conto della presenza degli altri inquilini. Ha avuto un pensiero veramente gentile, signora.”
Mi compiacqui della risposta: un avvertimento velato, non aggressivo, che suonava più come un consiglio paterno che come una lamentela da vicino becero.
Ci congedammo nella massima cordialità.

Riuscii a malapena ad aspettare che bollisse l’acqua per il thè, poi mi fiondai sulla torta. Era deliziosa. La assaporai lentamente, con la dedizione che riserva un amante alle prime armi alla sua musa. Cercavo di non straziare le pere, di staccare con la forchetta pezzi integri e decorosi.
È che forse ci impiegai troppo. Dopo due o tre bocconi mi tornarono in mente le peripezie notturne e iniziai ad avvertire uno strano sapore in bocca, come di corruzione e umidità.
Osservai le pere mosce, bagnate di liquore. Ne rimasi stomacato. In testa mi percuotevano immagini lascive, disgustose, cigolii viziosi, sentori di fluidi corporei, olezzi viscerali.
Scostai il piatto con una mano e mi alzai in piedi. Percorrere il perimetro della stanza un paio di volte mi aiutò a trovare il coraggio per afferrare la fetta con due dita e gettarla nella spazzatura. La torta madida e sugosa che i suoceri della signora Fenucci avrebbero candidamente assaporato la sera stessa.

Verso mezzanotte, quando “mamma” e “papà” avevano abbandonato il palazzo da una buona mezz’ora, e la signora Fenucci aveva lavato cumuli di piatti sporchi, e il signor Fenucci aveva messo a letto il figlioletto raccontandogli una favola con fate e orchi buoni, e la signora Fenucci si era accuratamente tolta il trucco e messaggiata la faccia con una crema detergente costosissima “ma tanto efficace”, e il signor Fenucci aveva indossato il pigiama di flanella che la suocera gli aveva regalato per Natale, dopo questa successione scrupolosa e metodica di operazioni, iniziai a rimpiangere l’imitazione così verosimile del maiale.
Gli animali della fattoria vennero rimpiazzati da una gragnola di insulti e parolacce, che aumentarono progressivamente d’intensità con l’avvicinarsi dell’orgasmo di lui. Preferirei non soffermarmi su ciò che ho udito. Mi limiterò soltanto a specificare che, mentre lui si manteneva sul classico, lei fece sfoggio di un’inventiva sino a quel momento sconosciuta alle mie orecchie.

Trascorsero altre due notti di contorsionismi assortiti. Come contromisura provai un paio di auricolari e Mozart, ma non resistetti a lungo. Avvertivo la necessità di tenere la situazione sotto controllo. La consapevolezza che il loro amplesso avvenisse alle mie spalle mi urtava. Del resto se avevano la faccia tosta di fare i loro comodi senza il minimo pudore, perché mai avrei dovuto vigilare sulla privacy al posto loro? Avevo o non avevo il sacrosanto diritto di stare in casa mia senza tapparmi le orecchie?
Nonostante ciò, continuavo a non trovare il coraggio per riportare il vassoietto ai Fenucci. Lasciai passare tre-quattro giorni. Quando l’attesa stava per trasformarsi in furto decisi di farmi vivo.
Un pomeriggio mi gettai in corridoio senza riflettere, con il vassoio accuratamente lavato. Bussai.
“Chi è?”, riconobbi la voce di Stefano al di là della porta blindata.
“Ciao, sono… il vicino” (mi domandai se il ragazzino si ricordasse o meno il mio nome) dovrei restituire un vassoietto.”
Sulle prime non ricevetti risposta.
“Oh – temporeggiò Stefano – c’è anche tua moglie?”
“Moglie? Di cosa parli?”
Una serie di lucchetti e catene vennero smosse e oltre la porta socchiusa apparve il musetto di Stefano.
“Ehilà  – salutò – scusa sai. I miei non sono in casa e non vogliono che apra a nessuno. Era uno stratagemma per capire se eri solo o se dei ladri ti avessero costretto a suonare”.
“Mh… capisco. Quindi i tuoi non ci sono?”
Stefano scosse la testa meccanicamente.
“Ok. Allora lo lascio a te. Posso?”, sollevai il vassoio.
“Certo. Vuoi entrare a bere qualcosa? Non so un bicchiere di latte, un caffè. I miei hanno anche un mobiletto con degli alcolici.”
“No, non preoccuparti. Ci vediamo.”
Feci per dirigermi verso il mio appartamento, quando il bambino mi chiamò. Allora ricordava il mio nome.
“Senti… per questa cosa che ti ho aperto…potremmo concordare una versione, ecco.”
“Oh, naturalmente. Potresti aver chiesto ‘chi è’ e io ti potrei aver lasciato il vassoio sulla soglia”
“Buona idea”, non aggiunse altro e chiuse la porta.

La notte stessa – stavo dormendo – venni svegliato da un terremoto. O almeno, mi sarebbe piaciuto se si fosse trattato di un vero e proprio terremoto.
Era piuttosto una scossa carnale, una manifestazione naturale di depravazione sismica su scale sconosciute perfino a Mercalli. Il Fenucci vibrava colpi secchi dentro sua moglie che, presumibilmente appoggiata alla testiera, scuoteva il letto contro la sottile striscia di parete che ci separava. Temetti di ritrovarmeli in camera, in un certo frangente dell’atto ondulatorio. A me non rimase altro da fare che tirarmi a sedere sul letto e spingere con la schiena sul muro, per evitare lo sfondamento. Immaginai il vassoietto posato sul comodino accanto a loro che, colpo dopo colpo, si avvicinava al bordo del mobile, per cadere a terra e andare una buona volta in frantumi.

Seguirono altre notti, nuove evoluzioni. Ci fu una serata dedicata alla sanità – la Signora Fenucci trattava il marito come un paziente di un ospedale (“Come si sente oggi il mio paziente preferito?” “Vediamo vediamo… cosa possiamo somministrare a questo povero malato  per farlo sentire un pochino meglio?”) e finiva immancabilmente per curare i suoi mali con la medicina più antica del mondo – un’altra agli ammanettamenti reciproci  (a un certo punto mi parve che entrambi fossero legati e non capivo come potessero copulare l’un con l’altro e, successivamente, liberarsi) e la più classica serata botte, dove sganassoni, graffi e morsi la fecero da padroni (il giorno seguente incontrai Fenucci per le scale, in compagnia delle sue tumefazioni).
Accadeva quasi tutte le sere, e nulla sembrava turbarli. Vicini, figlio, stanchezza, calo del desiderio. Erano parole incomprensibili alla loro orecchie, tanto quanto un vhs danneggiato o il lamento di una trota.
Nel frattempo ero costretto a incontrarli di frequente, e a fare buon viso a cattivo gioco, si capisce. La Signora Fenucci sembrava provare un certo piacere a mettermi in difficoltà. Mi fermava sempre sul pianerottolo per informarsi su come stavo e mi lanciava delle frasi che rimanevano incastrate lì, come una lisca di pesce in gola.
Spesso si lamentava perché il caldo non le permetteva di dormire bene. Oppure diceva che Stefano faceva un sacco di incubi. E poi aveva sempre da ridire a proposito della porta del piano terra. Che cigolava…
Senza contare i continui inviti a cena che mi rivolgeva.
“Ci farebbe piacere averla a cena con noi” – “Quando possiamo invitarla a cena?” – “Mio marito sarebbe lieto di mostrarle la casa…”
Non avevo dubbi che Fenucci mi volesse mostrare la sua tana… ci siamo capiti no? Considerate le loro abitudini, chissà quali intenzioni avessero con me. Io declinavo gentilmente, accampando scuse solide e ben strutturate. Non che avessi nulla contro di loro, per carità. Erano pur sempre una famiglia Barilla e il sole li irraggiava di una bellezza divina. Soltanto che mi sentivo in imbarazzo.
In compenso la mia vita aveva preso una piega singolare. Era come se mattinate e pomeriggi mi colassero dal naso come muco liquido e incolore, un raffreddore di stagione che scompariva con la stessa rapidità con la quale era sopraggiunto.
Allo stesso modo,  il sole sorgeva e si inabissava dietro i palazzi alla velocità di uno sbattere di ciglia. All’ora di cena avevo già scordato cosa avevo fatto durante la giornata, forse perchè non avevo combinato assolutamente niente.
Certo, il problema all’anca che mi costringeva temporaneamente a casa mi discolpava, ma solo a titolo parziale. Il problema principale era rappresentato dal senso di impazienza che mi coglieva nel momento di andare a letto, una sorta di ansia pre-vacanziera che mi impediva perfino di chiudere gli occhi e tentare – quantomeno tentare – di dormire.

Me ne stavo disteso con gli occhi piantati sul soffitto, l’orecchio ben teso e pronto ad azzannare i suoni. Non mi sentivo così dalle notti precedenti alle partenze per il mare con i miei genitori. Accadeva pressappoco un milione di anni fa.
Ogni rumore impercettibile, ogni lieve scricchiolio o spostamento proveniente dall’altra parte del muro, mi provocava un tuffo al cuore.
Si trattava più che altro di una delle tipiche fitte di malessere che ti colgono quando stai aspettando una cosa da troppo tempo e, una volta che quella determinata cosa dà segno di volersi manifestare, tu sei troppo lavorato dentro da poterla accogliere con serenità.
Da piccolo mi capitava tutte le vigilie di Natale. Passavo l’intera notte insonne, divorato dalle aspettative e dal nervosismo. Talmente divorato da alzarmi la mattina di Natale con un diavolo per capello e la speranza che la giornata trascorresse il più in fretta possibile.
Questo riprovare sentimenti di cui mi ero disfatto anni addietro – l’attesa per la partenza, l’impazienza per l’annunciazione dei Fenucci nella loro camera da letto – non mi lasciava per niente tranquillo.
Perché poi i Fenucci arrivavano davvero, e dopo poco cominciavano a darci dentro con le loro consuetudini da parental control.

Ora, capisco cosa starete pensando. Probabilmente vi sarete fatti quest’idea fin dal principio. Ma, credetemi, non è così! Non sono quel genere di persona. Non ho perversioni  particolari o strani bollori repressi. Non sono una specie di guardone (o come diavolo si dice per coloro che, invece di guardare, si eccitano ad ascoltare).
Forse questa storia – per come è stata raccontata fino a qui – può avervi portato a fare un certo tipo di considerazioni sulla mia personalità che sono estremamente distanti dalla realtà.
Io non avevo alcun interesse a farmi gli affari dei Fenucci. La questione è molto più complessa del fuggevole piacere che si prova a dare una sbirciatina all’intimità degli altri. Si trattava di scegliere, per così dire, se farsi partecipe o se venir estromesso da un momento dell’esistenza che, nella vita di molte persone (e, ne sono certo, i Fenucci appartenevano a quella cerchia lì) risulta assolutamente centrale.
Era come se i coniugi, utilizzando il loro campionario di sospiri e urla goderecce,  tentassero di dirmi: “Ascolta. Puoi essere testimone del nostro piacere, dell’estasi congiunta, di un orgasmo che potrebbe, da un momento all’altro, dare un fratellino al nostro unico figlio. Credi di essere all’altezza, o intendi tirarti indietro?”.
No, non intendevo tirarmi indietro. O meglio, non riuscivo a farlo. Tapparmi le orecchie, dormire sul divano, ascoltare la musica. Erano tutte soluzioni che, almeno una volta, avevo tentato. Ma ero sempre stato costretto a tornare sui miei passi.
Infatti non potevo accettare l’idea di riposare proprio mentre si consumava un atto così importante per la vita di un altro essere umano. Mi sembrava quasi un’offesa, uno spreco. Ma, soprattutto, faceva sentire la mia esistenza più piccola, più insignificante.
Ascoltare il suono dei loro attorcigliamenti mi faceva sentire parte di qualcosa, di un qualcosa di vitale e immenso.
Voltare la testa da un’altra parte significava voltare la testa alla vita, certificare una volta per tutte il mio status di indifferenza e mediocrità.
Perciò piano piano diventò una consuetudine sempre meno celata, quella di poggiare l’orecchio contro la parete, e prestare ascolto al fluire di sensatezza che eruttava ogni sera sul materasso matrimoniale dei Fenucci. Finalmente avevo risposto alla chiamata, senza aver più timore di riconoscere a me stesso l’importanza della mia missione: la testimonianza.
Incontrare i Fenucci durante la giornata iniziò a non crearmi problemi. Mi piaceva, anzi, essere custode dei loro segreti senza che loro ne fossero a conoscenza.

 

La situazione precipitò una sera di ottobre. Ormai ero rientrato a lavoro da quasi un mese. Il tempo trascorreva con maggior rapidità.
Avevo finito di sfogliare una rivista arrivata per posta (e a cui non ricordavo di essere abbonato) e poi, con molta tranquillità, mi ero infilato il pigiama.
In televisione c’era un torneo di golf. Avevo tolto l’audio e mi ero messo in attesa, dentro il letto.
Il golf è uno sport inutile e noioso fino a quando non azzeri le sue vaghe possibilità di attrattiva. Provate a togliere l’audio, a non conoscere le regole, a non seguire l’andamento della gara, ed ecco che ci si ritrova di fronte a una pura distesa di verde rassicurante. Non c’è niente di meglio per rilassarsi – datemi retta – di una pura distesa di verde rassicurante, meglio ancora se calpestata da alcuni individui con in testa una visiera da contabile.
Fatto sta che a un certo punto sento dei rumori provenire dall’altro appartamento. Faccio per spegnere il televisore ma poi decido che una pura distesa di verde rassicurante non guasta mai.
Ricordo di aver fatto un pensiero assurdo che consisteva nel chiamarli al telefono per suggerirgli di sintonizzarsi anche loro su quel canale.
Sentii sbattere la porta, e poi dei cassetti. Incrociai le braccia dietro la nuca e attesi. Parole spezzate fluttuavano verso di me senza riuscire ad assumere un senso.
“…un fallito …prenderti le tue fottute responsabilità …su una strada”, diceva la Signora Fenucci.
“…il santo giorno col fiato sul collo …sempre a giudicare”,  rispondeva il marito, come se stessero giocando a un qualche strano gioco di società basato sull’associazione d’idee.
Il tono della contesa era tutt’altro che ludico, però. La Signora Fenucci aveva una voce aspra, una cadenza canzonatoria e risentita che non le avevo mai sentito. Proseguirono ancora per qualche minuto, poi i nostri appartamenti sprofondarono entrambi in una quiete bellicosa che non prometteva nulla di buono.
Infatti, il giorno seguente, se non avessi sentito russare il Fenucci, non mi sarei nemmeno accorto della presenza dei due in camera da letto.

Sebbene a fatica, i coniugi ripresero le loro esplorazioni, ma con una cadenza sempre meno frequente ed entusiasta. In compenso i litigi si moltiplicarono a dismisura. La notte – seguiti da un riposo risentito – e non solo.
Una volta era uscito per buttare la spazzatura e avevo trovato Stefano sul pianerottolo, accucciato accanto alla porta di casa.
Pensavo si fosse chiuso fuori, così mi sono avvicinato per domandargli se avesse bisogno di telefonare ai suoi, o roba del genere.
“No, grazie – aveva risposto lui in tono serio – i miei sono in casa”
“E allora cosa ci fai qui?”,  avevo domandato.
Il ragazzino indicò l’appartamento con un cenno del capo.
“Litigano”, disse
“Oh.”
Sapevo che a quel punto sarei dovuto andare a buttare il mio bel sacco di immondizia, ma non riuscii a schiodarmi da lì. In qualche modo sentivo che erano pure affari miei.
“Sembra che Papà non sia più in grado di tenersi un lavoro.”
Lo disse come se stesse parlando da solo.
“Prima che ci trasferissimo qui Papà occupava una posizione di spicco, ma poi ha combinato un guaio e adesso sembra proprio che non sia più in grado di tenersi un lavoro. Mamma è molto in collera. Dovremo cambiare casa un’altra volta”
Quello sì che era il momento opportuno per dare a Stefano una parola di conforto, per dirgli “Vedrai, si sistemerà tutto”, oppure “È solo una fase, mamma e papà si vogliono bene”.
Invece tirai dritto verso l’ascensore senza salutarlo.
Ero sconvolto. Scagliai il sacco dentro il cassonetto con tutta la forza che avevo in corpo e poi mi accasciai sul bordo del marciapiede, nella stessa posizione in cui avevo trovato Stefano.
Rimasi impassibile, lo sguardo solido sul manifesto di un circo, per niente intimidito dall’idea di farmi sorprendere in quello stato comatoso da uno dei vicini.
Pur non riuscendo a raccogliere i pensieri in file ordinate, sentivo ridefinirsi i contorni della mia vita in una forma vagamente angolare e spigolosa.

Capita spesso di sentirsi ripetere che ognuno è artefice del proprio destino. Tutte frottole, ben inteso. Ma, ponendo per assurdo che ognuno di noi sia effettivamente capace di cambiare il corso della propria esistenza, cosa accade quando il tuo destino è appeso alla sorte di altre persone?
Cosa avrei potuto fare per cambiare la mia situazione? Se mi avessero permesso di riappiccicare la storia dei Fenucci laddove essa si era scollata, mi sarei armato di mastice e in un battibaleno avrei sistemato tutti i nostri guai. Impossibile, certo.
E allora cos’altro avrei potuto fare, se non quello che ho fatto? Certo, ammetto di essere stato brusco nei toni e assai poco delicato nell’approccio, ma il mio è stato l’ultimo, disperato tentativo di mettere in salvo le nostre vite, così come eravamo abituati a riconoscerle. Un modo per dire “Ehi, riavvolgiamo un attimo il nastro. Un secondo fa voi eravate questi, non scordatelo. Torniamo a quando tutto filava liscio e i problemi non sembravano affatto dei problemi”.
E – sì – ho fallito. In fin dei conti, non sono altro che un testimone, io. E i testimoni non sono altro che osservatori. Assistono. Documentano. Nulla più.
Ho sopravvalutato il mio ruolo, quel pomeriggio di dicembre, quando mi imbattei nei Fenucci davanti alla porta dell’ascensore. Non avrei dovuto, non avrei dovuto. Purtroppo è andata così, ormai.
Stavo per richiudere la porta dell’ascensore alle mie spalle ed eccoli entrare, moglie e marito.
“Fra moglie e marito non mettere il dito”, cantilenava spesso mia madre.
Io ci ho messo un avambraccio. E ho spartito con loro l’ascensore da me chiamato. Una cabina grande un decimo della camera da letto dei Fenucci, probabilmente. Io, mamma e papà.
La signora Fenucci era accigliata come mai mi era capitato di incontrarla. Quando li attesi con la porta socchiusa sorrise appena. Biascicò un saluto smorzato. Fenucci non disse niente. Si limitò a schiacciare il bottone del nostro piano.
Lui guardava nell’angolo in alto a destra, fischiettando chissà quale stupido jingle creativo, lei se ne stava con gli occhi piantati per terra, sempre bellissima, ma gelida, distante come una modella che ti sorride dalle vette di un cartellone pubblicitario.
Niente cordialità, niente chiacchiere. Adesso ero diventato il vicino con il quale condividere silenzi imbarazzati per cinque piani di altezza.
Riuscii a trattenermi per due piani, poi sbottai:
“Andiamo! Tutto ciò è assurdo, non vi pare?”
Sottratti ai loro musi lunghi, i due si scossero improvvisamente.
“Mi scusi?”, chiese lei.
È ridicolo, assurdo…proviamo quantomeno a discuterne con serenità”, proposi.
Moglie e marito si guardarono di traverso, cercando di non farsi notare.
“Temo di non capire…”, intervenne Fenucci.
“Ok, ci sono dei problemi. Capita. In un matrimonio capita. Pensavate davvero di continuare a tubare come due piccioncini fino alla fine dei vostri giorni? Fatemi il favore, avete guardato troppi film voialtri. Anche questa storia del trasferimento… – afferrai un braccio della donna, che sussultò (il marito non sapeva proprio che fare) – vedrà che suo marito metterà a posto le cose. È un tipo in gamba, saprà come provvedere alla sua famiglia, non è vero?”
La signora Fenucci tirò via il braccio con violenza.
“Cerchiamo di venirne a capo con calma, senza isterismi – continuai – sono qui per questo, è per questo che mi avete scelto, no? Possiamo anche mettere da parte i convenevoli e parlarne con la massima sincerità.”
La luce del quinto piano si accese. Le porte scattarono e i Fenucci con queste. Si precipitarono verso la porta senza neanche voltarsi o dire buonasera.
Fermo dentro l’ascensore riuscii ancora a ripetere: “È ridicolo, ridicolo. Tornate qua. Non fate altro che scappare”, e la porta del loro appartamento si chiuse con un tonfo.
Infilai la chiave nella toppa e non ricordo molto altro, se non che qualche ora più tardi mi sono sorpreso tristemente adagiato sul divano, alla disperata ricerca di uno spot della Barilla in tv.

I Fenucci, quelli veri, non li ho più incontrati. Hanno traslocato circa due settimane dopo i fatti occorsi nell’ascensore.
Ricordo una domenica mattina, freddissima. Ero affacciato alla finestra per vedere la neve, quando i tre Fenucci hanno fatto capolino in strada pieni di scatoloni. Caricavano con movimenti sbrigativi, inciampando nei cumuli di neve e imprecando fra i denti. L’eleganza con la quale si erano appropriati del territorio, diversi mesi prima, era svanita. Pensavano soltanto a completare quella scocciatura di trasloco senza inciampare e rompersi l’osso del collo sul bordo del marciapiede.
Per tutto quel tempo non alzarono mai lo sguardo verso l’alto. Non che mi aspettassi qualcosa di differente.
Montarono in macchina e sparirono dietro l’angolo, alla ricerca di un nuovo lavoro per Fenucci e di un appartamento ancora più piccolo, e poi, chissà, di un bilocale, e dopo ancora di una stanza in subaffitto. Una matrioska di case sempre più modeste e dequalificanti.
“Devi smetterla di pensare a queste sciocchezze”, ho detto a voce alta.
E così ho fatto. Lì per lì mi sono dedicato alla pulizia del bagno, e nei giorni successivi ho iniziato a collezionare francobolli esteri. Ha funzionato.
Giuro di non aver mai origliato le conversazioni dei nuovi vicini, anche se – devo ammetterlo – i nuovi vicini sono prossimi all’età pensionabile e conducono una vita assai poco eccitante.
Certe volte guardo la televisione e mi tornano in mente, tutto qui. Poi mi sintonizzo sul canale satellitare che trasmette golf ventiquattro ore su ventiquattro e lascio che una pura distesa di verde rassicurante mi avvolga e mi conduca per mano in un placido mondo popolato da quieti esserini con la visiera, un mondo dove le uniche preoccupazioni sono rappresentate dai tipi di mazza, dalla fantasia dei gilet a scacchi, dai par e da tutte le altre, infinite sciocchezze su cui solo uno sport come il golf si  può basare.

Testo: Martin Hofer
Immagini: Sara Flori

One thought to “Cose nelle orecchie”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *