l'audi nuova

La stanza di Lorenzo era sporca e in disordine. Un trofeo in plastica dorata campeggiava sulla mensola sopra la scrivania impolverata e pendeva a destra, sfiorando di poco una sveglia analogica. Il letto era sfatto, le lenzuola odoravano di chiuso e di Lorenzo. Un mobile con un’anta a vetro ospitava una discreta collezione di macchinine, tutte Audi in scala.
L’angusta cucina era colma di stoviglie ammonticchiate dalla cena con Giacomo della sera precedente. Lorenzo parlava spesso all’amico della sua passione per le Audi, macchine mirabolanti, adorate fin da bambino a partire dai modellini che collezionava con suo nonno. Ne erano rimasti tre in casa, acquistati una ventina di anni prima alla solita edicola del signor Franco e ora posti come reliquie in camera sua tra gli altri modellini della sua collezione. Quando li avevano comprati c’erano già gli euro, ma suo nonno li pagava sempre diecimila lire, perché le parole pronunciate per tutta la vita non si scollano all’improvviso. Diecimila lire, un modellino nuovo e la felicità di Lorenzo.
Adesso che Lorenzo stava per comprarne una vera, di Audi, Giacomo si era mostrato tutt’altro che felice per lui. Il livore malcelato che aveva espresso durante la cena dopo aver appreso la grande notizia aveva reso evidente a entrambi che qualcosa nel loro rapporto si era incrinato. Era stata una cena avvilente. Lorenzo aveva passato il resto della nottata sveglio, combattuto tra l’euforia per la nuova macchina e il risentimento per la reazione dell’amico.

Nella periferia in cui viveva, abitata perlopiù da stranieri e disoccupati, lo conoscevano in pochi, o forse lo conoscevano tutti. Questo Lorenzo non lo sapeva. Sapeva soltanto essere un piccolo ragazzo sulla quarantina, con i denti storti sul davanti, gli occhiali in plastica rossi e un prominente fondoschiena, che nel corso della sua vita gli aveva procurato diversi nomignoli tra cui “culone”, “culo a papera”, “sanculotto” e che rendeva il suo fisico simile a quello di una donna formosa, motivo per il quale il soprannome che alla fine si era imposto sugli altri era stato “l’ermafrodita”.
Aveva una laurea in statistica, ma viste le scarse possibilità di trovare un impiego in quella parte remota del Sud Italia, andava a lavorare tutti giorni in due posti diversi: il lunedì, mercoledì e venerdì da un fruttivendolo e il martedì, il giovedì e sabato nei cantieri come imbianchino. Così facendo arrivava a guadagnare il necessario per mettere da parte cinquecento euro al mese, seicentocinquanta nel periodo di Natale. Zero contributi per la pensione, perché entrambi i lavori erano pagati a nero.
Non rimpiangeva di aver lasciato casa molto presto, quando suo fratello aveva dodici anni e suo padre era ancora in buona salute. Dopo la laurea si era trasferito a venti chilometri dalla sua famiglia, quel tanto che bastava per sottrarsi alle offese che non finiva mai di subire e che gli avevano causato una certa durezza d’animo. L’unico rapporto che lo riportava all’infanzia era quello con Giacomo, che, tuttavia, gli sembrava ormai giunto al capolinea.
Lorenzo, che dopo il lavoro attraversava in bici ogni angolo della città alla ricerca di qualcosa che lo distogliesse dall’ora tra il ritorno a casa e la cena, era a tutti gli effetti un uomo solo.

Quella domenica mattina sapeva di buono, l’aria mite e la pioggia di qualche giorno prima avevano spazzato via l’afa, tanto che mezza città stava assalendo i lidi balneari. L’atmosfera era degna di una giornata speciale e, nonostante la stanchezza per la notte passata in bianco, si sentiva così bene che decise di non lasciare in casa quella mareggiata di disordine.
Dopo aver ripulito ogni cosa il suo piccolo appartamento gli apparve all’improvviso estraneo e grazioso. Anche lui si sentì bello, forse per la prima volta, così sottolineò quel senso di sicurezza precaria indossando abiti che si era comprato per le occasioni importanti. Un pantalone color tortora, una camicia di lino bianca e dei mocassini marroni in tela.

Uscì con largo anticipo, ma scese le scale di fretta e inciampò su un gradino. Non si fece nulla. Un’ora più tardi avrebbe dovuto incontrare l’uomo che gli avrebbe venduto la macchina, ma prima voleva prendere un po’ d’aria.
A quell’ora la città era silenziosa e assolata. Benché le spiagge fossero affollate, un’innaturale desolazione si era impadronita delle strade a causa di una misteriosa pantera, fuggita dalla dimora di un collezionista, che vagava da settimane per il territorio, tra muretti a secco ai limiti degli abitati e passeggiate in pieno centro. Lorenzo non ci credeva e la sera prima ne aveva discusso con Giacomo. Era anche per questo che si sentiva più solo: quel disaccordo, quel disincanto da parte sua, doveva aver provocato in Giacomo un senso di repulsione, la stessa che prima o poi finivano per provare tutti. Questo lo amareggiava e il cammino verso la sua macchina nuova diventò pesante. La vita gli scorreva davanti senza che avesse mai provato a fare l’amore, cosa la comprava a fare quella macchina se non ci avrebbe portato sopra nessuno?

Le nuvole erano alte e lontane e le loro forme non raccontavano nulla; Lorenzo scivolava per i marciapiedi usurati senza incontrare anima viva.
Magari si sarebbe imbattuto nella pantera, o forse anche lei lo avrebbe schivato. Oppure si sarebbero scoperti molto più simili di quanto si potesse credere: entrambi insoddisfatti delle loro vite e alla solitaria ricerca di qualcosa di meglio. Stava pensando a tutto quello che sarebbe potuto accadere se fosse davvero inciampato in quel mistico animale, quando incrociò la macchina di Giacomo che sfrecciava via, alzando alcune buste di plastica abbandonate per strada. Chissà se lo aveva visto e aveva tirato dritto lo stesso. La sua speranza era che si fosse trattato soltanto di un malinteso, e che la situazione si potesse ancora risolvere, magari proprio con un giro sulla nuova auto.
Continuò a camminare e si accorse di essersi allontanato da casa sua, quindi al primo incrocio invertì la rotta, cercando di frugare nei suoi pensieri. Il quartiere nel quale si era ritrovato non gli era sconosciuto, ma neanche così familiare da distoglierlo dai dettagli. I balconi raccontavano di agglomerati umani beceri, le ringhiere erano quasi tutte arrugginite e le tende da sole di un verde sbiadito che faceva tanto periferia degradata.

Domenico Gregorio 1

Notò un bar con l’insegna fatiscente e démodé. Non c’erano tavolini fuori, nessuna vetrina appetibile, solo un bancone che conviveva con una pesante penombra. Nonostante l’atmosfera decadente Lorenzo fu preso dalla voglia di festeggiare con un bicchiere di prosecco fresco, così senza pensarci troppo entrò. Scoprì che all’interno, oltre al bancone, ai liquori e al commesso alto e magrissimo, c’era una piccola edicola.
Chiese al barista il prosecco, ma si sentì a disagio per quel che stava facendo. Cosa poteva pensare di lui quell’uomo sconosciuto?
Pervaso dalla vergogna, bevve alla svelta, ma fu ugualmente attratto dalle confezioni di giochi da collezione che si assemblano pezzo per pezzo una volta alla settimana. Pensò a suo nonno e alla loro abitudine di andare la domenica mattina all’edicola del signor Franco. Fu, però, un ricordo vago, tanto vago che realizzò con stupore di non essere più in grado di focalizzare il volto di suo nonno.
Rapito dal senso di colpa posò una banconota da dieci euro sul bancone e fuggì via.

Si sforzò di far emergere il volto opaco di suo nonno Nicola ancora e ancora, ma senza successo. Allora gli venne voglia di andare al cimitero, per osservarne la foto sulla tomba. Appena ritirata la macchina, sarebbe potuto andarci, magari avrebbe portato un fiore e gli avrebbe fatto sapere che ci era riuscito, che finalmente possedeva un’Audi.
Ci voleva un fiore, ma dove lo avrebbe potuto trovare un fiore in mezzo a tutto quel cemento? Se fosse rimasto nel suo quartiere, avrebbe raggiunto il negozio di Rosa, la fioraia a pochi isolati da casa sua. Ma in quella desolazione, in mezzo alla fitta rete di strade estranee, vuote e scorticate, dove avrebbe potuto rimediare un fiore?
Si pentì di quella scelta. Perché mai aveva deciso di uscire di casa così presto? Perché aveva sentito l’impulso di camminare e, soprattutto, perché si era spinto così lontano?
Si sforzò di pensare a quello a cui stava andando incontro. Un evento del genere gli avrebbe mutato la vita, gli sembrava impossibile che mentre i destini generali si svuotavano di senso a causa della pandemia, mentre milioni di persone rischiavano di perdere tutto, mentre il mondo colava a picco, per lui le cose iniziassero a girare bene. Cosa avrebbe pensato Giacomo quando lo avrebbe visto sulla sua auto nuova? Finalmente a lavoro lo avrebbero guardato con occhi diversi e magari avrebbe iniziato a frequentare una ragazza.
Tuttavia qualcosa lo frenava. Realizzare il sogno di una vita di punto in bianco, in quel modo così concreto e irreversibile, lo terrorizzava. La grandiosità di quel momento, l’apice della sua esistenza, sembrava, in verità, stringergli ai piedi un pesante macigno.
Stava per acquistare un’Audi TT pagata con gli ultimi anni di risparmi. Pur di non intaccare il suo gruzzolo, aveva persino mentito a suo fratello, che gli aveva chiesto un aiuto per finanziare la fisioterapia di suo padre. L’idea di possedere quell’Audi, trovata dopo mesi di ricerche su internet, anche se del 2012, anche se con un graffio sul paraurti, anche se grigia e non bianca come l’aveva sognata, lo aveva completamente posseduto.
Solo che in quel momento, ossessionato dal ricordo, o per meglio dire, dal non ricordo di suo nonno e dal pensiero per suo padre, la foga del desiderio si era affievolita.
Adesso comprare la TT era poco più che un impegno preso con il venditore e con l’assegno che aveva in tasca. Non che la felicità si fosse esaurita, ma il senso di colpa e la tristezza l’avevano atterrito e fu travolto da una specie di delusione verso se stesso. Come aveva potuto inaridirsi fino a quel punto? Avrebbe dovuto pagare la fisioterapia di suo padre, andare a trovarlo per il suo compleanno, sfogliare il vecchio album dei ricordi e farsi raccontare della prima volta che aveva incontrato sua madre. Non vedeva quel che era rimasto della sua famiglia da più di un anno e se suo padre si fosse ammalato di Covid probabilmente non lo avrebbe rivisto mai più.

Dopo tanto vagare arrivò sotto casa sua, dove avrebbero dovuto attenderlo l’uomo e la sua macchina nuova, ma non trovò nessuno. Sul suo piccolo balcone scorse i fili dell’antenna televisiva che si infiltravano all’interno attraverso un grossolano buco nella parete. Lorenzo, pieno di inquietudine, si piazzò sul marciapiede di fronte per vedere ciò che chiunque poteva osservare della sua stanza. Non se ne era mai accorto, ma la sua vita era tutta lì, offerta agli occhi di qualsiasi passante. Si distinguevano perfino le piccole Audi e pensò che fosse assolutamente necessario montare una tenda. L’indomani l’avrebbe comprata dal cinese e si sarebbe anche procurato qualche aggeggio per raddrizzare il trofeo del torneo di calcio.
Intanto due uomini in infradito attraversarono la strada e li sentì parlare della pantera. Uno dei due diceva che qualcuno di sua conoscenza se l’era ritrovata davanti mentre guidava e per scansarla aveva mancato di poco un grosso albero.
Bastarono la vista di casa sua e i frammenti di quel discorso a far vacillare i suoi rimorsi, che si dissiparono completamente quando due colpi leggeri di clacson ruppero il silenzio.
A quel suono l’animo di Lorenzo trasalì. Era la sua Audi. Il timore di esserne deluso rallentò i movimenti del suo capo che ci mise qualche secondo a voltarsi. A guidarla c’era un uomo di mezza età, pelato, con gli occhiali da sole.
Come aveva fatto a riconoscerlo? Non lo sapeva né gli importava. Lorenzo era frastornato e con il cuore in gola. Si sbracciò per indicargli una piazzola di sosta qualche metro più in là e gli corse incontro. I suoi fianchi, ampi e grassocci, resero quella corsa goffa e superflua.

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L’uomo scese dall’auto e Lorenzo notò quanto fosse basso. Indossava una camicia celeste leggermente sbottonata e dei bermuda beige. Si chiamava Antonio e lavorava come ingegnere in una multinazionale a Torino. Come ogni estate stava trascorrendo le sue ferie nella casa di famiglia.
Salirono sull’Audi per un breve giro di prova, Lorenzo si accorse che sullo specchietto retrovisore era appeso un ciuccio di gomma. Avrebbe potuto chiedere ad Antonio se desiderasse riaverlo, ma lo scrupolo di sembrare indiscreto lo fermò.
Mentre osservava quanto fossero sinuose le linee degli interni, costellate da segni di usura, fu permeato da un senso di pienezza. Il rumore del motore era lieve e profondo, esattamente quello che si aspettava e che i suoi modellini non erano mai riusciti a restituirgli. La leva del cambio si muoveva fra le marce con agile eleganza e il sedile, dalla seduta bassa e sportiva, rinforzava la sua estasi.
Quando il semaforo posto a qualche isolato da casa sua diventò rosso, Lorenzo affondò il piede nel pedale del freno. L’auto rallentò a poco a poco, arrestandosi con tanta dolcezza che ne fu impressionato. Antonio iniziò così a sciorinare l’efficienza dei freni, ma Lorenzo smise di ascoltarlo, poiché notò che lì, in attesa di attraversare, c’era Giacomo. Chissà cosa avrebbe provato vedendolo passare nella sua nuova Audi. Sarebbe riuscito a mascherare la sua invidia? Si insinuò in lui un’esaltazione sinistra per quell’incontro, che evidentemente era stato orchestrato da qualcosa o qualcuno al di sopra di lui.
Gli venne in mente, poi, che Giacomo si era sicuramente accorto nel corso degli anni che la sua stanza era del tutto visibile dalla strada. Come mai non glielo aveva detto? Avrebbe dovuto consigliargli di mettere una tenda alla finestra, eppure non lo aveva fatto.
Forse non se ne era mai accorto? Oppure lo aveva ritenuto poco importante. Forse anche lui lo spiava? Magari gli aveva girato dei video mentre dormiva o si cambiava o chissà e li aveva caricati su internet…. Si ricordò di quella volta in cui per il suo compleanno gli aveva regalato una sveglia analogica e gli guizzò in testa il pensiero che lo avesse fatto perché lo aveva sorpreso una di quelle volte in cui si era svegliato di soprassalto, in imbarazzante ritardo rispetto al suo orario di lavoro.
Furono pensieri insopportabili che lo destarono dal suo godimento. In un attimo, per la prima volta in vita sua, perse il controllo.
Sentì il cranio divampare, le fibre muscolari irrigidirsi e costringerlo a imprimere grande forza sull’acceleratore. Ne seguì uno scatto impetuoso, ferino. I giri del motore alle stelle e il rombo grave della macchina lo galvanizzarono.
Senza alcuna pietà Lorenzo, ignorando le urla di Antonio, travolse il suo amico, che piombò sul parabrezza. Lo trascinò ferocemente per qualche metro finché il corpo non precipitò sull’asfalto. L’auto sfrecciò via. Una donna accorse urlando.

Testo Lyuba Centrone
Illustrazioni Domenico Gregorio

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