apofenia

“Mi sento…”
“A disagio, sì, questo l’ho capito. Cerchiamo di fare qualche passo avanti. Sono due mesi che siamo fermi su questo punto. Credo sia ora di andare oltre.”
“Non a disagio, è che… non so se posso fidarmi, non so come dire, non è per te, cioè, tu sei una brava persona e…”
“Grazie per la brava persona.”
“…e non penso che tu sia un pericolo…”
“Grazie anche per questo.”
“…ma forse va bene così. Cioè, il grosso l’abbiamo affrontato, credo di stare migliorando adesso.”
“Hai ancora dei blocchi, dobbiamo lavorare ancora molto. Preferisco essere onesto con te.”
“Forse la prossima volta…”

Guardò l’orologio, la seduta era finita. Accompagnò Saverio alla porta dello studio e l’osservò scendere le scale. Non prendeva mai l’ascensore.
Si andò a sdraiare sul divano nel piccolo soggiorno adiacente allo studio. Era una sera di maggio, il cielo una parete viola profumata di gelsomino. Inspirò a pieni polmoni e poi espirò, stancamente.
Lo squillo del telefono incrinò il silenzio, una chiamata anonima, gli capitava spesso ultimamente. Al settimo squillo riattaccavano, ogni volta.
Dopo un po’ andò a frugare nel cassetto della scrivania dello studio e prese il diario di Saverio. Andò a rileggersi l’inizio.

Deposizione dell’associato Saverio Lorenzetti contro la loggia

§1

Mi ritengo una persona ragionevole, lo sono sempre stato, fin da piccolo. Quando i miei fratelli, al mare, si tuffavano dalla parte più alta dello scoglio, io ero quello che si immergeva gradualmente dalla spiaggia, bagnandosi polsi e pancia.
Mio padre mi disprezzava. Vivevamo a Roma, quartiere Testaccio. Una casa affacciata sulla piazza del mercato. Mia madre non stava bene, aveva spesso delle crisi. Mio padre li chiamava “piccoli nervosismi”, ma ricordo benissimo il collo teso, la faccia paonazza, la bocca serrata come una morsa.
Una volta strinse la spalla di mio fratello Alberto così forte che il giorno dopo aveva cinque lividi circolari, uno per ogni dito della mano.
Stavamo al settimo piano, come sempre. Eccetto per “i piccoli nervosismi” le cose andavano bene. Mio padre sembrava molto contento del suo lavoro e mia madre, nei momenti di calma, era una donna molto dolce ed estremamente acuta. Amava leggerci le poesie di Montale, noi non ci capivamo niente, ho sempre odiato la poesia, soprattutto Montale.
All’età di quattordici anni, Alberto allora ne aveva diciassette e Mario nove, mio padre iniziò a passare più tempo al bar in piazza, tornava a casa ubriaco fradicio. Lo sentivo parlare con la mamma, cose di lavoro, credo fosse impiegato in un ufficio per il recupero crediti o qualcosa del genere. Non ho mai chiesto e non ha mai detto.
Qualche mese dopo dovemmo trasferirci, molto più lontano dal centro, a Colli Albani. Mio padre non fu più lo stesso, era chiaramente depresso. Le crisi di mia madre peggiorarono. Noi crescevamo con l’egoismo dei ragazzi, pensando più che altro alle gite scolastiche, alle storielle, alle prime bevute e via così. Io non ero un granché, non come Alberto.

§2

Nel condominio a Colli Albani alloggiavamo al solito settimo piano. Lì ho avuto modo, per la prima volta, di osservare gli squallidi rituali della Loggia. In fondo ne ero già parte, solo non lo sapevo.
Un giorno stavo salutando mio padre sull’uscio, prima che andasse a lavoro. Notai che era agitato, balbettava, il cappello calcato sulla testa come a volerne celare i pensieri. Quando uscì mi venne un sospetto, guardai dallo spioncino. Se ne stava lì sul pianerottolo, fermo, non so come ma sapeva che lo stavo osservando.
Citofonò al nostro dirimpettaio, il signor Agostini, un vecchietto mezzo sordo che passava il suo tempo a guardare il telegiornale a un volume tale da mettere l’intero condominio a conoscenza delle sue pessime abitudini televisive.
Agostini aprì, sospettoso. Mio padre fece un gesto che allora mi parve assurdo, gli puntò l’indice contro, il pollice alzato, come i bambini quando giocano a spararsi. Agostini ricambiò e subito dopo mio padre lo salutò normalmente con la mano destra – per la pistola aveva usato la sinistra – e il vecchietto ricambiò di nuovo. Si guardarono per qualche istante, poi salirono su.
Pensai che la cosa non avesse senso, perché di sopra c’era solo la porticina che dava accesso al vano dell’ascensore.

§3

Ho omesso un dettaglio fondamentale. L’ascensore era bloccato al nostro piano, era già così da quando ci eravamo trasferiti. Ancora rido se penso a mio padre: recitava la parte del finto tonto alla perfezione. Ci dissero che non si poteva riparare, avevano provato in tutti i modi, persino cambiando modello, ma niente.
Le cose andavano bene, mio padre si era ripreso alla grande dopo il trasferimento. Con mia madre andavano spesso fuori a cena. Era bellissima, quando era felice. Non so come mio padre avesse fatto a convincerla, lui era grigio, noioso come una scatola di graffette da ufficio.

§4

A ventitré anni mi trasferii all’estero. Ero stato mandato a Parigi dall’azienda di biscotti per cui lavoravo, mi occupavo di pubbliche relazioni. Volevano facessi una sorta di tirocinio presso l’azienda madre, in Francia.
Mi ero trovato un piccolo appartamento a Belleville, un casino di quartiere. L’appartamento era al settimo piano, l’ascensore sempre bloccato. A casa stavo pochissimo, di giorno a lavoro, la sera il più delle volte uscivo, cercando di rifarmi della mia piatta adolescenza romana.
Credo fosse uno dei primi giorni di febbraio quando successe. Ero a Parigi da settembre e la città mi piaceva parecchio, ero ingrassato molto, penso fosse per via dell’alcol.
Saranno state circa le sei e mezza del mattino, ero distrutto, tornavo da casa di Marianne, la ragazza che frequentavo. Arrivato al pianerottolo trovai il mio vicino, un vecchietto di origine portoghese, tale Ricardo Pinto, di fronte alla porta di casa.
Pensai volesse rimproverarmi per la mia vita notturna, ma la cosa sarebbe stata parecchio strana, Pinto si faceva gli affari suoi, ci avevo scambiato sì e no due parole col mio francese stentato. Mi fissò in silenzio, poi, lo giuro su mia madre, mi puntò “la pistola” contro, come avevano fatto mio padre e Agostini tanti anni prima.
Fatto ciò, rimase in osservante attesa. Collegai subito il gesto a quello che avevo visto fare a mio padre.
Non so perché lo feci, forse la stanchezza o semplicemente per accontentare l’uomo che mi stava di fronte. Risposi col medesimo gesto, puntando l’indice sinistro verso Pinto.
Lui, tutto serio, mi salutò con la mano destra, e io lo risalutai.
Mi fece cenno di seguirlo al piano di sopra, dove c’era il vano dell’ascensore. Aprì una porticina, ci ritrovammo sul tettuccio dell’ascensore bloccato. Ricordo che eseguiva ogni gesto con lentezza esasperata, non una parola, era come un sacerdote di un culto a me ignoto, eppure il mio corpo sembrava esser stato programmato, fin dall’inizio, per quei precisi movimenti.
Indicò un angolo del tettuccio, dove era installata una sorta di scatoletta di metallo. Si frugò le tasche e tirò fuori una chiavetta, poi la inserì in una serratura, che si aprì con uno scatto.
C’era un pulsante rosso e accanto il quadro di un piccolo orologio a lancette. Segnava le sei e cinquantanove. Quando la lancetta dei secondi terminò il giro, Pinto schiacciò il pulsante. Poi richiuse la scatoletta e tornammo giù.
Mi guardò a lungo, poi mi prese la mano, la girò e nel palmo mise la chiavetta, vi richiuse sopra le mie dita, come se stesse chiudendo il guscio di un frutto di mare. Ricordo bene il metallo che spingeva nel mio palmo molle di stanchezza.
“Continua tu.”
Aveva gli occhi lucidi.

Il giorno dopo arrivò una raccomandata, c’era scritto che avevo diritto a uno stipendio mensile di, se ricordo bene, duecento franchi, una miseria.
Per cosa poi?
Quella mattina non girai la chiavetta. Quando tornai a casa, l’ascensore era sorprendentemente in funzione. Me lo disse il portiere, entusiasta, sconvolto per la novità. Insistette perché prendessi l’ascensore, lo provi lo provi, guardi come va, sembrava un bambino a Natale. Erano vent’anni che l’ascensore era fuori servizio.
La settimana dopo, Pinto si buttò dalla finestra del settimo piano. Quando arrivarono i figli per vedere lo stato della casa, notai che era quasi totalmente vuota. Un frigo, un divano e poco altro. Capii che Pinto viveva di quei miseri duecento franchi. Tutto sembrava così assurdo, eppure… Eppure sentivo come un tremore sottocutaneo, come se qualcosa mi stesse attirando magneticamente a sé. Raccontai la cosa a Marianne.
Si mise a ridere, per poi scusarsi per la sua insensibilità nei confronti del povero Pinto, che cosa assurda, ma dai, che pazzia, non ci credo, mi stai prendendo in giro, smettila.
Ridemmo insieme, le raccontai anche dei duecento franchi. Lei disse che probabilmente era tutta una farsa di Pinto, un mitomane.
Ridevo anch’io, pur sapendo che le cose erano molto più complicate di come le stessi raccontando alla mia testa inutile. Una testa fatta non per pensare, ma per eseguire un unico compito.

elisa francioli

§5

Marianne dopo un po’ non volle più vedermi, diceva che ero ossessionato, continuavo a pensare all’ascensore, a quella chiavetta.
Dal giorno del suicidio di Pinto la mia vita divenne strana. Mi sentivo osservato, braccato.
Ogni mattina, alle sei e cinquantuno in punto, la mia testa era assalita da un dolore lancinante. Ne parlai con un dottore, disse che ero ipocondriaco.
Rimasi a Parigi ancora un mese, poi tornai a Roma, a Monteverde, terzo piano. Ogni mattina scendevo fino al piano terra a piedi, e chiamavo l’ascensore.

§6

Qualche anno più tardi mio padre morì. Mia madre ci aveva ormai lasciato da tre anni. Al funerale rividi Alberto e Mario, dopo tanti anni di silenzio. Eravamo fratelli per puro caso.
Pochi giorni dopo il funerale, l’avvocato mi consegnò una lettera, da parte di mio padre. Rimasi stupito, non era il tipo da lettere.
Una sola riga, c’era scritto Benvenuto nella Loggia Settima.
Alberto mi telefonò qualche mese dopo domandandomi con tono disperato, Ma tu il pulsante lo schiacci? Attaccai subito.
Richiamò il giorno dopo: Come fai col mal di testa mi chiese, sono stato costretto a schiacciarlo, non c’è cura, disse. Rimasi in silenzio, Alberto piangeva, riattaccai.
Giorno dopo giorno la sensazione sottocutanea cresceva, fino a diventare una presenza, un doppio che mi abitava e cercava di tirarmi verso il vano macchine dell’ascensore.

* * * *

Chiuse il diario. Si era fatto buio. Stappò una birra, si sentiva secco, non solo nella bocca, in tutto il suo essere.
Un’idea gli sibilava nel cervello, fino a emergere, dopo ripetute pulsazioni, sulla superficie della coscienza.
Decise di salire fino al vano macchine dell’ascensore, lo fece con un sorriso diviso tra paura e speranza.
Si fermò, nella sua testa rullava il boato dei battiti cardiaci. Lo sapeva, ne era perfettamente consapevole, eppure in quel momento si stava lasciando impressionare dai deliri di un paziente.
Salì fino alla porticina. Non aprì, si sporse soltanto un po’, per veder meglio il tettuccio dell’ascensore. La scatoletta non c’era.
Quando rientrò in casa era sollevato e al tempo stesso disgustato dal suo essere sollevato, dall’aver perfino pensato che…
Andò a farsi una doccia. Sotto lo scroscio si massaggiò le meningi, come a perdonarsi per l’accaduto. Nell’altra stanza il telefono iniziò a squillare, al settimo riattaccarono. La testa ora gli girava un po’, il cuore riprese a rullargli nel petto.

Testo Adriano Manca
Illustrazione Elisa Francioli
Lettura Veronica Rivolta

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