Claudio aveva ucciso un uomo, diversi anni prima. Se n’era pentito, e poi da un giorno all’altro, come una bolla che scompare in una minuscola esplosione, il pensiero di quello che era stato lo aveva abbandonato.
Per il resto della sua vita aveva rigato dritto, non rispondeva mai male, aveva pochi amici, o forse addirittura nessuno. In carcere tutti lo conoscevano per la sua pedanteria e per le richieste continue di materiali per dipingere, che ogni tanto suscitavano l’irritazione delle guardie. Non era amato, ma tutti lo rispettavano e questo gli bastava.
Incontrare lo sguardo timido di quella donna ormai non più giovane, rubiconda e allegra, fasciata nei suoi abiti che contrastavano con la faccia contadinesca, aveva riacceso desideri per anni sepolti nella consapevolezza che a un ergastolo si sopravvive solo nel deserto delle sensazioni e nella costanza dell’operosità. A questo serviva la pittura: scacciare il pensiero della vita e quello del suo contrario, scordare la vita e allontanarne i ricordi. Persino rivedere dopo tanti anni il mondo fuori lo aveva lasciato indifferente. Quando aveva ricevuto il primo permesso premio, attraversare la città gli aveva messo voglia di tornarsene in prigione. Fuori, vecchie coppie sedevano placide ai tavoli di un bar allungando tartine ai propri barboncini sotto lo sguardo severo di una cameriera, come se la vita non fosse altro che prendere il sole fino all’ultimo raggio del pomeriggio. Per non parlare degli schermi da sbloccare e dei codici che qualsiasi semplice azione richiedeva, fuori. Sembrava impossibile districarsi tra le stranezze della tecnologia a uno che era entrato in galera quando gli smartphone non esistevano. Dentro, come diceva lui, il tempo è congelato in un rassicurante passato, le cose sono ordinate e la vita costretta in rigide regole assume una bellezza matematica.

Per Claudio l’agguato di Linda era stato quindi inatteso: non ricordava più che lo sguardo di una donna è una di quelle cose che può condannarti. La notte che l’aveva incontrata si ritrovò a fantasticare, sognando palme altissime, il vento che infuocava la capigliatura di Linda, la libertà. Era forse possibile una fuga dalla solitudine? Se lo chiedeva mentre il pensiero di lei si allargava come una macchia di vino rosso su una tovaglia bianca. Che bella casa deve avere, che bravo nonno sarei per i suoi nipotini, li porterei a cavalluccio o sul pancione, diventerei grasso a furia di essere amato, pensava trattenendo gli organi che spingevano per esplodergli dal corpo in un moto di gioia involontaria.

Con i suoi amici Linda è solita chiamare il volontariato in prigione uno stupendo esercizio per lo spirito, come aveva fatto per il kundalini yoga l’anno precedente e la pole dance svariati anni prima. Per una donna della sua età, sulla sessantina, che non ha mai lavorato in vita sua, sono innumerevoli le attività a cui dedicarsi per rivendicare una propria utilità nel mondo e per giustificare quella sua abituale espressione “non c’è mai tempo”. Quando altre donne come Linda si incontrano tra loro per un tè o per cena, ecco partire la sfida a chi si è dedicata all’esercizio più edificante.

Quella mattina si sveglia di buon’ora, non ha dubbi che il podio sarà suo. Quale maggiore elevazione potrebbe esserci che dedicarsi agli ultimi della Terra? Il sole pallido di dicembre taglia di sbieco il palazzo di fronte. Mentre sorseggia il tè, Linda osserva il raggio di luce che appare come una strana anomalia nell’atmosfera grigiastra in cui si fondono il cielo e il palazzo nelle prime ore del giorno. Il Louvre di Abu Dhabi deve somigliare a questo: un luccichio sfarfallante di finestre, un edificio falciato dal sole mentre intorno si alza l’alito opaco del deserto. Non vede l’ora di ammirarlo con i suoi occhi, durante il viaggio di fine anno che si è regalata per Natale.
Dopo aver sbirciato pigramente il fondo della tazza, nell’automatismo di cercare la fortuna già a colazione, si arrende all’assenza di segni del destino. Si piazza davanti allo specchio e studia la sua figura paffuta, poi indossa un paio di pantaloni di velluto e un cardigan violetto. Se normalmente passa ore a creare complicati giochi di colore e proporzioni per tentare di ritrovare le sue forme, è mossa ora dal desiderio contrario, ovvero di nasconderle. Mentre si guarda da ogni angolazione pensa che finalmente Delia potrà capire e non sbufferà più ogni volta che lei pronuncerà la parola carcere. Delia, a cui da anni chiede la ricetta dell’arrosto con le mele ricevendo come risposta un’enigmatica alzata di sopracciglia.

Allegra, quasi pimpante, suona al campanello dell’enorme palazzo. È arrivata per prima, l’aria frizzante che le sta intorno viene attraversata dalla voce severa proveniente dal citofono che le risponde che è troppo presto. Pazienza, aspetterò, dice, e già sospetta che le altre donne riunite lì davanti, ugualmente sobrie ma ricercate nell’abbigliamento, siano lì per la sua stessa ragione.
Delia arriva trafelata e come sempre avanza una scusa. Linda nota subito che è ingrassata di almeno due chili dall’ultima cena, il taglio nuovo le sta male ed è sicura che le chiederà se le piace. Delia invece non accenna ai suoi capelli, assorta com’è ad ascoltare la spiegazione del giovane smunto che le sta per traghettare dall’altra parte del muro, in prigione. Facendo scivolare la testa ramata attraverso il cordino, Linda indossa il suo badge e interrompe la guida per sottolineare che lei non avrà bisogno del pass temporaneo, perché ogni martedì mattina entra a San Vittore per tenere il corso di ceramica con i detenuti. I piccoli denti le scintillano mentre lo dice, la testa oscilla leggermente annuendo alle sue stesse parole, mentre si assicura con lo sguardo che tutte abbiano sentito. Il sole aggraziato di questa giornata scalda il gruppetto di donne, il cui chiacchiericcio ricorda quello di una gita domenicale o di un trekking urbano. Le loro teste ondeggiano come spighe lucenti e dal momento in cui entrano in carcere si muovono come un corpo solo, forse per non disperdere il calore perfetto di quello che chiamano il mondo fuori.

Per la maggior parte delle persone varcare quella soglia sarebbe fonte di tensione, se non di vera e propria angoscia. Per chi, invece, come Linda, sa per certo a quale parte di mondo appartiene, farsi chiudere qualche catenaccio dietro alle spalle può essere persino eccitante. Divertita dallo spaesamento delle compagne di fronte al tono militaresco con cui a tutte vengono richiesti i documenti, Linda sorride alle battute dei secondini che riecheggiano nell’ingresso. Il cortile ha qualche albero, il corridoio che il direttore fa tirare a lucido prima delle visite odora di detersivo brezza marina, e per Linda tutto assume i contorni rassicuranti della recita: la voce teatrale delle guardie, le donne in visita con i loro piumini ultra-leggeri, i detenuti che dal fondo del secondo ingresso ciabattano verso di loro, curiosi. Del carcere vedono poco e nulla, si dirigono direttamente nell’ala in cui si trova il laboratorio d’arte e da corpo unico si liberano, finalmente potendo ritrovare le pose abituali. Un lento camminare tra un’opera e l’altra, un fare assorto che qualsiasi manifestazione culturale richiede, uno sguardo contrito di fronte all’altrui sofferenza. Dietro il religioso silenzio si annida la leggerezza di sapere che lo sforzo di comprensione avrà per loro una ricompensa nella torta di fragole di bosco con tè Darjeeling che le aspetta al bar pasticceria all’angolo, adocchiato venendo a piedi verso la prigione.

“Io dovevo nascere Aquario, starmene serafica, tranquilla, sempre per aria… invece no, Capricorno!”
Entrando nel bar e prendendo posto, Delia pronuncia la sua sentenza caricandola di bonario vittimismo, come fanno le persone convinte che l’unica fonte di divertimento per i propri amici siano le loro sventure. Le due donne chiacchierano svogliatamente della mostra, qualche ah, terribile e ti si stringe il cuore accompagna il discorso, insieme al tintinnio dei cucchiaini roteanti. Notando la distrazione di Linda, intenta a rincorrere con lo sguardo la propria immagine riflessa negli specchi del caffè, Delia le chiede perentoriamente di cosa voleva tanto parlare. D’improvviso le sembra difficile spiegare quella che potrebbe apparire come una ridicola infatuazione. Linda sorride e si trattiene dal raccontare i suoi sentimenti, non è ancora pronta a darli in pasto all’amica.

Fuori dal bar è sceso il buio, un sipario azzurrino come il fondo degli occhi chiusi, un’aria lattiginosa distesa lungo il tragitto per casa che la getta all’istante nella malinconia. Ha conosciuto Claudio un mese e mezzo prima e di lui l’ha colpita la gentilezza galante e un certo modo di sbattere le ciglia femminili, in contrasto col suo aspetto grigiamente maschile. Se non fosse stato un detenuto, lo avrebbe certo scambiato per un ragioniere, o per un bancario.
È stata la signorina C. a farli incontrare, sapendo che Linda insegna ceramica e che Claudio dipinge da anni nella sua cella. La signorina C. non mancava mai di prenderla in giro incrociandola nei corridoi del carcere, tenendosi stretta ai suoi plichi di pratiche legali.
“Spero non le scappi la pipì, miss. Altrimenti le tocca farsi un viaggetto in reparto e scegliere il buco più elegante in cui espletare.”
Linda si convinceva che facesse parte dell’esperienza e non reagiva alle provocazioni. Una volta la signorina C. le era venuta incontro dicendole che i detenuti stavano dando fuoco ai materassi dopo che uno di loro era stato trovato impiccato nella sua cella. Le conveniva andar via se non voleva fare la fine del topo. Linda le aveva sorriso con cordiale freddezza, pensando che una tale assurdità non poteva che essere uno scherzo, ma le guardie glielo confermarono indicandole l’uscita.
Non sapeva, dunque, se la signorina C. li avesse fatti incontrare per ridere di loro oppure no, ma in fondo poco le importava.
Passeggiando nel crepuscolo, Linda ripensa agli occhiali squadrati di Claudio, ai figli che non la chiamano mai, alle cravatte improbabili dell’ex marito. Con questo carico di fantasmi della sera china le spalle per girare la chiave nella serratura, chiedendosi se una briciola di felicità sia ancora possibile per lei. Deve ricordarsi di farsi leggere da Delia le previsioni astrali per l’anno nuovo. Il pensiero la rilassa e le fa rialzare un po’ la testa, che sbuca nel buio della villa vuota.

sara la spina

Da quando è arrivata la prima lettera di Claudio si è ricordata che da ragazza scriveva lunghe missive alle cugine di Buenos Aires, che le chiedevano come fosse l’Europa, se le donne italiane baciavano sempre tutti sulle labbra e se il console, ovvero suo padre, avesse perso il suo cipiglio scuro respirando l’aria del Mediterraneo. Era da un pezzo che non riceveva posta interessante, nonostante l’impegno nel mantenere in ordine la cassetta su cui faceva capolino il suo nome in lettere affusolate. Ogni mattina attraversava il giardino eccitata, in attesa di una nuova lettera.

È UN PIACERE SCAMBIARE IDEE CON UNA DONNA COME LEI, ASPETTO CON ANSIA DI PARLARE DEI MIEI QUADRI A CHI SE NE INTENDE DAVVERO.

In stampatello, con qualche errore di ortografia, aveva davanti agli occhi la più romantica manifestazione di interesse che potesse ricordare. La tenne con sé per giorni, rileggendola quando l’emozione la faceva dubitare della sua esistenza. Allora c’era ancora speranza, se Claudio la guardava come un uomo guarda una donna? L’urgenza di saperne di più la portò di corsa dalla cartomante, che senza confermare né negare, la lasciò in preda a una grande disperazione. In tutte le lettere Claudio diceva “una donna come lei”, ma com’era lei? Cresceva violentemente il desiderio che fosse più specifico, che le dicesse di più su cosa la rendesse speciale, distinguendo lei da tutte le altre.
Non era mai stata vanitosa perché non era bella, ma non escludeva niente nella vita, neanche la scoperta di un fascino fino ad allora a lei sconosciuto. L’apparizione di questa illusione, che ci fosse ancora qualcosa in serbo per lei, le rese sempre più insopportabili le notti, in cui desiderava una spazzola per cani per scorticarsi la pelle che prudeva come se i nervi vibrassero in superficie, il cuore pulsante sulla punta delle dita. Le stanze vuote producevano rumori inquietanti: fruscii, scricchiolii legnosi, a volte schiocchi secchi, litanie meccaniche. Solo un dormiveglia pieno di sussulti e cadute vertiginose la stancava fino a calarla nel ronzio opaco delle notti senza sogni.

Entrata in casa, Linda ritorna col pensiero alla mostra, ha impressionato a dovere Delia e le signore, ne è certa. Claudio non era venuto. Strano, perché lo aveva promesso, forse si trovava in isolamento. Rifiuta di rattristarsi in una serata tanto piacevole e lieta, pensa invece con soddisfazione ai complimenti che le composizioni natalizie hanno ricevuto, lunedì prossimo ci porterà anche sua figlia. Allunga la mano verso il telefono per scriverle, indossando gli occhiali. Come se si fosse materializzato in quell’istante davanti ai suoi occhi, nota un pacco quadrato poggiato sul parquet, a pochi passi dalla porta d’ingresso. La domestica deve aver firmato per lei, ma il pacco non ha nessuna etichetta di spedizione. Senza spiegarsi perché, sente un’aura sinistra provenire dall’oggetto accuratamente impacchettato. D’istinto si guarda intorno, in cerca di altri segni di un passaggio estraneo in casa sua. Porta il pacco sul tavolo di cristallo, accendendo la lampada ricurva che lo illumina, e lo scarta.
È un piccolo quadro, di gusto mediocre, per non dire volgare, dalle pennellate così violente da provocarle un sussulto. Una scena campestre, il profilo di un paesino nordico che ricorda la Svizzera, la campagna circostante su cui cala una sera acerba, fresca. In primo piano una volpe dall’espressione di stolido trionfo tiene nelle fauci una gallina, il sangue le cola dalla bocca disegnata con un tratto infantile che ne amplifica la ferocia. La volpe si sta allontanando dalla città che si addormenta, ignara della sua malefatta.
Il peso del quadro le sembra improvvisamente insostenibile, lo poggia sul tavolo con fatica. Terrorizzata all’idea che possa essere evaso, corre alla finestra aspettandosi di vedere Claudio, invece la strada sotto al lampione è vuota.
Chiude le imposte, prende due grosse pasticche bianche dal portamonete all’ingresso, si versa un po’ d’acqua in cucina e sprofonda nel divano, ingoiandole. La speranza fa presto a rovesciarsi in disperazione e orrore, quando si guarda inaspettatamente il proprio desiderio.
Chiude gli occhi, osserva l’acqua d’acciaio che la circonda, immobilizzandola sempre di più, e sorride lievemente, mentre resta in attesa che scenda su di lei un quieto nulla.

Testo Carlotta Centonze
Illustrazioni Sara La Spina

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