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Aveva piovuto per diversi giorni e poi, per altrettanti, aveva brillato un sole cocente. E dopo la pioggia e il caldo era arrivato di nuovo il maltempo. Intorno alla città il bosco era fitto, lamentoso, pieno di enormi alberi preistorici che sembravano sul punto di tracimare sulle strade deserte, nelle case dove la gente aspettava con timore e trepidazione. Sarebbe bastato un leggero scricchiolio, un piccolo movimento in più perché accadesse.
Nadia uscì dalla porta del suo condominio indossando dei pantaloncini neri e una maglietta giallo fosforescente. Era relativamente giovane, le sue articolazioni erano ancora elastiche, ma l’ultimo controllo dal Lettore Medico e la notizia che aveva raggiunto il punto più basso del suo decadimento interno l’avevano appena condannata: era finalmente giunto il momento, doveva uscire e trovare il suo luogo di ricomposizione. Aveva trascorso le ultime settimane senza andare a correre, rinchiusa nell’appartamento, ignara del mondo esterno e dei suoi accadimenti. E così, nonostante il panico che cominciava ad assalirla, provava un vago sollievo all’idea di potersi muovere. Di solito il suo giro la portava dal complesso residenziale – praticamente nel centro della città – verso il campus universitario: un vasto arcipelago di aule, dormitori, giardini e campi sportivi, un insieme di isolotti che si espandeva verso ovest ed era intrecciato con il tessuto urbano, tra uffici, centri commerciali, strade gremite di bar e ristoranti, dove ridevano e sbocciavano uomini realizzati e donne che non avevano ancora sperimentato il decadimento interno. Ma quel pomeriggio, allontanandosi da quelle persone che ormai sentiva estranee, Nadia scelse prima le strade secondarie e poco battute, e poi i sentieri vicino al bosco, che la pioggia, il sole e poi  l’umidità densa – presagio del diluvio imminente – avevano reso profumati e ariosi, percorsi semi-tropicali da cui si levava un odore minaccioso.

Alle sei di sera il caldo di inizio autunno si era appena attenuato. Nadia ipotizzò ci fossero 31 o 32 gradi. Provò un senso di vertigine al ricordo di altre giornate simili, in cui, tornando al suo appartamento pieno di libri e utensili da cucina, e con i pavimenti in legno plastificato su cui il sole al tramonto si rifrangeva in un arcobaleno segreto, arrivava sfinita e coperta di sudore. Erano passati due giorni da quando il Lettore Medico della Superficie 68 – uno dei due conglomerati urbani che sopravvivevano a est del continente grazie al riciclo di corpi femminili – aveva annunciato il culmine del suo declino interno e le aveva ricordato la necessità di arrendersi. Eppure si sentiva ancora disorientata. All’inizio la notizia l’aveva scioccata: era davvero arrivato il momento? Era il suo turno? Le sembrava incredibile che stesse accadendo. Ma stava accadendo. Come a tante altre prima di lei, come era già successo a sua nonna, a sua madre e a molte delle sue conoscenti, come sarebbe toccato, inevitabilmente, a tutte nella città, era arrivato il suo turno di andare nel bosco e lasciare andare il suo corpo.
Quando correva, di solito cominciava camminando per qualche isolato, quanto bastava per lasciarsi parzialmente alle spalle la folla e il traffico, e solo allora iniziava ad accelerare. Come tutte nella Superficie 68, lo faceva fin da bambina, perché così le avevano insegnato, ma lo faceva anche per il piacere, per l’euforia che la invadeva, e forse persino per vanità, per mantenersi fresca ed elastica. Alla fine correva perché – come tutte in quell’enclave urbano sostenuto dall’obsolescenza programmata dei corpi femminili e sul loro successivo riciclo – il decadimento interno la rendeva sempre meno capace di farlo, era meno veloce, più debole. E per sfuggire a quel destino ineluttabile,
come se potesse sottrarsi alla fine che l’attendeva – la grande foresta in cui i corpi venivano ricomposti in un lago di materia liquida – correva. Correva per dimenticare che un giorno non avrebbe più potuto correre. E quel giorno era arrivato.

Dopo essersi lasciata alle spalle le vie del quartiere ed essersi avvicinata alla strada lungo cui le auto sfrecciavano a tutta velocità, svoltò e si diresse verso l’uscita che conduceva prima a una rotonda pedonale, poi a un incrocio secondario dove confluivano i veicoli e, infine, a un viottolo che segnava l’inizio di un enorme parcheggio, dietro al quale cominciava, come un mare, il bosco. Nadia vi si diresse e iniziò a correre.
La prima cosa morta che vide fu un’enorme mosca. L’immagine durò due o tre secondi, ma le rimase impressa molto più a lungo, sovrapposta al paesaggio. Era una mosca grossa e allungata, grande parecchie volte più di una mosca normale, verde, nera e bluastra, con grandi occhi svuotati e ricoperta di formiche che la divoravano emettendo un ronzio continuo, un brusìo cadenzato di insetti necrofagi. Cosa le era successo? Era morta in volo, prima di cadere a terra e venire fatta a pezzi? Nadia pensò che nel bosco la morte fosse una cosa talmente quotidiana – fuggire, invadere, ingozzarsi in un ciclo interminabile – da essere appena percettibile. Morte animale, morte vegetale. Il sentiero su cui si trovava era un corridoio di terra segnato da cespugli con grandi foglie, che ostacolavano la vista ma non i passi: scudi flessibili e lucenti che si opponevano al suo avanzare solo per gioco.
Mezzo chilometro più avanti, mentre il cielo grigio si richiudeva su di lei, si udivano i primi tuoni e, al tempo stesso, i suoni del traffico vicino si facevano più radi – come se gli automobilisti liberassero la strada accanto al bosco in segno di rispetto davanti alla tempesta imminente – Nadia rallentò il passo. Perché il Lettore Medico aveva decretato che era quella la sua fine? Non capiva, si sentiva ancora giovane, flessibile, vitale, ma sapeva che non c’era alcuna possibilità di appello. Dopo l’epidemia che aveva portato alla grande sterilità e all’impossibilità di
concepire, né sulla Superficie 68 né nel resto del continente si facevano eccezioni alla legge del riciclo. Come a conferma di ciò, qualcosa nell’aria attirò la sua attenzione. Cos’era? Cosa stava calando dall’alto? Una coscienza multipla e ancora lontana sembrava destarsi. Continuava a evitare piccole pozze in cui marcivano mucchi di foglie e rami spezzati dal vento, mentre pensava alla moltitudine di donne che l’avevano preceduta lungo lo stesso percorso, fino al luogo della ricomposizione: il grande lago di carne vorticosa. Centinaia di migliaia di corpi che si consegnavano al bosco perché centinaia di migliaia potessero vivere in città. Il terreno in quel tratto sembrava un collage incompiuto, un puzzle verde, giallo e marrone senza alcun ordine. E lì, in mezzo a quel caos, una nota stonata: una goccia rosso scuro, quasi porpora. Non una goccia, in realtà, ma una scia che si allungava come un linguaggio verso il lato destro del sentiero, dove si trovava la fonte, la radice.
Dal muso della cerbiatta dagli occhi congelati, che giaceva ai suoi piedi, era sgorgato – forse con gli ultimi rantoli – un piccolo lago di sangue opaco che tingeva quel tratto del sentiero e che, schizzato fuori dal corpo, si era coagulato formando una pellicola uniforme su terra ed erba, una delicata seconda pelle che filtrava lentamente in profondità.
Nadia guardò la cerbiatta addolorata, con timore ma anche con compassione, immaginando i pochi anni in cui aveva calpestato la Terra, il breve lasso di tempo in cui quella creatura era esistita e aveva riscaldato il pianeta, e si avvicinò solo per qualche secondo, fino a quando cominciò a percepire l’odore acre della morte – e qualcos’altro: una sorta di fitta di vita che sembrava sprigionarsi dal corpo, che a tratti si gonfiava, vibrava, addirittura si muoveva, finché Nadia capì che era invaso dalle larve.
Proseguì in salita lungo un sentiero tortuoso fiancheggiato da aceri, querce e magnolie, contemplando il paesaggio imponente a quell’ora del pomeriggio, cercando di respirare attraverso l’umidità densa, scostandosi dal volto una ciocca ribelle che le era sfuggita durante la corsa. Più si addentrava nel bosco, più il suo corpo le pareva estraneo, meno controllo aveva su di esso, sui suoi ritmi, sui passi irregolari, sul ronzio nelle orecchie – forse perché erano passate settimane dall’ultima volta che aveva corso e tornare sul sentiero richiedeva sempre un certo sforzo, forse perché l’obsolescenza programmata del suo corpo la stava spingendo al limite. La notte precedente aveva sognato Diana, le sue braccia brune che la avvolgevano, la sua bocca dalle labbra sottili. L’avrebbe rivista? Cercò di scacciare quell’idea dalla mente. Voleva essere pronta per la fine, ma riusciva solo ad ascoltare il bosco. O meglio: il silenzio popolato di suoni del bosco, una mandria, un fantasma colmo di vita. Una vertigine improvvisa.

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Dopo aver raggiunto la sommità di una salita, oltre cui gli alberi si diradavano e il bosco si apriva in una radura di erba ingiallita, un ululato la fece fermare. Unito all’umidità e al sudore che cominciava a colarle lungo i lati del viso, le fece cedere le ginocchia.
L’ultima volta che era uscita a correre – ormai tre o quattro settimane prima – era rientrata in serata nell’appartamento pieno di libri e utensili da cucina, si era fatta una doccia rapida e aveva scaldato la cena: Diana sarebbe passata più tardi per mangiare insieme. Quel che aveva in frigorifero sarebbe bastato per entrambe, perché di solito, quando Diana mangiava, mangiava poco. La moderazione come obiettivo. La sobrietà come virtù.
L’eleganza. Uscita dalla radura, attraversò un tratto dove tronchi abbattuti e svuotati dalle intemperie erano invasi da funghi rossastri, piccole molle velenose che davano a quella zona imprecisata del bosco l’aspetto di un tappeto morbido.
Quella notte, dopo aver cenato scambiandosi poche parole e averla abbracciata a lungo, Diana aveva messo fine alla loro relazione. Siamo in fasi diverse, aveva detto. Io sono ancora giovane. È tempo di riconoscere che non possiamo più stare insieme.
Sentì la prima goccia di pioggia come un saluto, ma anche come un avvertimento. Atterrò, appena percettibile e al tempo stesso definitiva, sull’arco superiore del suo orecchio. Nadia non rallentò, anzi, accelerò. Venti, trenta, quaranta metri e il corpo era meno pesante e, al tempo stesso, più distante, come se il suo decadimento interno o uno stato anfibio della coscienza iniziassero a separarla dal suo io materiale riducendola a raffiche di pensiero. Una Nadia incorporea e fatta di idee che correva in parallelo a una Nadia corporea e incosciente e integrata nel paesaggio. Era una sensazione strana ma non spiacevole quella di iniziare a congedarsi da se stessa. Una nuova vertigine. Era pronta? Pensò che nessuno fosse davvero pronto a gettarsi nel lago dove le forme si liquefacevano prima di diventare una sola carne, e cercò conforto nell’idea che cedere il proprio corpo perché altri potessero vivere fosse un gesto d’amore. Uomini realizzati e donne destinate inevitabilmente alla ricomposizione, ma che avevano ancora tempo. Come Diana, come lei stessa fino a poco tempo prima. Le restava almeno quello, un residuo di fiducia nel futuro collettivo. Ma senza Diana… no, non le restava neppure quello. Forse soltanto lo sbigottimento.
Si addentrò per un varco stretto, fiancheggiato da alti ciuffi d’erba che si levavano fumanti e anneriti. La vegetazione in quel tratto era in rovina, pareva fosse stata incenerita da una vampata o da un fulmine violento. Tutto restava in piedi – l’erba, i germogli, i cespugli – ma quella verticalità era un teatro annerito, una messinscena di cenere che minacciava di crollare alla prima raffica di vento. Che cosa era accaduto? Quale furia si era abbattuta su quella vegetazione annichilita? Nadia rabbrividì e si costrinse a riprendere a correre.
Mentre la pioggia le batteva sulla schiena, pensò che il bosco era come una grande bocca che si chiudeva.

Quando giunse alla curva oltre la quale si apriva una radura, nel cui centro si trovava un vecchio stagno, sentì l’impulso di tornare indietro. Su di lei e tutt’attorno cadevano gocce pesanti che riconobbe come l’inizio del temporale. Ma Nadia sapeva che era impossibile: nessuno era mai fuggito davvero al proprio decadimento interno e al riciclo. Così proseguì e il corpo, separato dalla coscienza, continuò a muoversi con passo regolare. Superò la curva, seguì il bordo dello stagno in cui affondavano secoli di fogliame, evitò nugoli di zanzare che sfidavano i segni del nubifragio, e avanzò lungo il sentiero che si perdeva tra enormi querce. Quel pomeriggio, con i tuoni che si facevano sempre più vicini e rimbombavano come le urla di un toro, sarebbe stato l’ultimo pomeriggio. C’era qualcosa nell’aria. Cosa? L’impotenza? La felicità?
Rallentò il passo tra le chiome folte delle acacie, così compatte da sembrare capaci di proteggerla dalla pioggia. A ogni passo, però, sentiva la pesante artiglieria dell’acqua. L’atmosfera si era fatta mesta e il terreno era segnato da pozzanghere appena nate e da radici che emergevano dal suolo come effetti di un’esplosione lignea. Chiuse gli occhi e si abbandonò al cammino, al suo corpo disconnesso dalla coscienza che la spingeva sempre più dentro il bosco. Seguì l’unico sentiero visibile tra la vegetazione, una striscia di terra che si addentrava nella boscaglia e che, procedendo, si assottigliava, diventava meno netta, fino a confondersi con il resto del terreno, invaso dagli stessi germogli, dalle stesse radici, dalle stesse foglie morte che confondevano tutto. Ma lì qualcosa si muoveva. Erano scoiattoli? Ratti? Piccoli e grigi, si mordevano furiosamente il muso, sbranandosi. Ritti sulle zampe posteriori, sembravano comporre una danza crudele in cui si ferivano a ogni passo. Nadia li vide solo per un istante e un brivido la percorse al ricordo dell’ultima volta che aveva ballato con Diana, una sonata irriproducibile che aveva fuso il corpo dell’una con quello dell’altra. Chiuse gli occhi e continuò la sua corsa mentre i danzatori si uccidevano tra nuvole di sangue che si spegnevano sulla terra bagnata.
Un fulmine celeste e violento attraversò il cielo dall’alto verso il basso. Lo vide cadere a duecento metri da dove stava correndo, circondata da alberi che si levavano come arieti, e durante il lungo istante in cui squarciò la fine del pomeriggio – illuminando ogni cosa e caricando ogni centimetro quadrato di elettricità – quel fulmine rivelò in Nadia un sentimento complesso: gioia e terrore nel riconoscersi ancora fatta di carne, di fibra e di ossa. Quando sarebbe accaduto? In quale momento si sarebbe aperto davanti a lei il grande lago?
Sicuramente molto presto. Da un angolo del bosco cominciò a udire un lamento, un grido sconsolato e cantilenante, finché con sorpresa vide un cinghiale barcollare da dietro un cespuglio e venirle incontro. Era un animale robusto, massiccio, con zampe forti e zanne incrostate di fango, che faticava a respirare tra i suoi stessi strilli, ansimava con la lingua penzoloni e lo sguardo annebbiato. Era enorme, imponente, ma qualcosa lo stava corrodendo dall’interno, lo consumava. Lo vide fare tre passi incerti nella sua direzione, debole, confuso, come se le chiedesse un aiuto che ormai nessuno poteva dargli, e nell’istante in cui lei fermò la corsa il cinghiale crollò ai suoi piedi. Nadia aveva visto, un attimo prima, brillare nelle pupille dell’animale un segno: il bagliore innaturale del proprio stesso sguardo.
Dopo un istante in cui si era domandata per l’ultima volta se potesse ancora voltarsi indietro, tornare alla città e al suo appartamento pieno di oggetti, e mentre la pioggia, in un gesto funebre, battezzava il cadavere del cinghiale, Nadia riprese a correre. Cos’era successo a quella massa di muscoli e pelo? Realizzò che sulla Superficie 68 la vita veniva gestita come nei castighi mitologici. Quando uscì dalla boscaglia, notò che il sentiero si ricomponeva in una traccia stretta di terra che si distingueva tra la vegetazione e guidava i suoi passi verso una conca piena di pioppi. Non c’era dubbio: quella era la fine. Per alcuni istanti sentì il ronzio di tutti gli insetti, gli strilli di tutti gli uccelli, il fragore di tutti i tuoni, il crepitare di tutti gli alberi scossi dal vento.

Era fradicia. Uscì dalla conca ansimando, gocciolante, aria calda su aria fredda su aria calda su aria fredda. La tempesta, allagando sentieri e bordi, creava piccoli fiumi ovunque. Non sapeva più bene che cosa stesse facendo, perdeva lucidità e non capiva perché non tornasse indietro, alla città, al quartiere, al palazzo in cui immaginava la stesse aspettando il futuro. Arbusti carichi d’acqua la circondavano mentre la sua immaginazione si accendeva.
Diana nell’appartamento, a cena con lei, a ballare con lei, nel soggiorno, in cucina, nella vita. Diana? Dovette trattenere un conato. Cinque o sei metri più avanti, confondendosi con il fango e l’acqua, una lucertola inseguiva uno scarafaggio. Correvano disegnando scie lucide sulla superficie, a zigzag, l’uno dietro l’altra. Lo scarafaggio cercava di salvarsi, ma Nadia capì subito che non aveva alcuna speranza. Tutto moriva. La lucertola, come una frusta, raggiunse l’insetto in un istante e se lo infilò in bocca. Quando Nadia distolse lo sguardo, la lucertola aveva
ancora lo scarafaggio incastrato in gola, con le zampe posteriori che si agitavano nell’aria.
Aveva probabilmente percorso già sei o sette chilometri. I vestiti le si erano completamente inzuppati e appiccicati addosso, tremava per l’emozione e per la paura, mentre il crepuscolo rimbombava tutto intorno. Quasi smettendo di esistere, sentì che, se non si fosse voltata in quell’istante, quel momento non sarebbe più tornato: avrebbe continuato a correre all’infinito, senza direzione, oppure diretta verso un punto lontano, verso un’idea, il lago di carne, il luogo del bosco in cui il corpo smetteva di essere corpo per diventare bosco. Con quella sensazione proseguì, passo dopo passo, mentre la pioggia le lavava il volto. Svoltò a un nuovo incrocio con la sensazione di trovarsi su un altro pianeta, e in quel momento, ormai fuori da sé, la vide. Ripiegata su se stessa, la figura si appoggiava al tronco di un albero, una scogliera attorno alla quale l’acqua si divideva formando due brevi ruscelli.
Nadia tremò, poi decifrò quella figura, e si mise a correre i pochi metri che la separavano da lei, forse trenta o venti, poi solo dieci, e infine nulla. Giunse accanto al cadavere con il cuore che batteva all’impazzata, e già prima di rivoltarlo per guardarlo in viso sapeva: riconobbe le proprie mani, i suoi stessi occhi spalancati, il volto contratto, come se la fine fosse arrivata a quel corpo – che era il suo corpo – in un momento di parossismo, di intensa pietà. Con uno sforzo, tirò giù dal tronco, che l’acqua inghiottì subito, quel corpo amato e inservibile, definitivamente fiaccato dal decadimento interno. Nadia si vide, e fu sopraffatta dalla compassione. Non sapeva quando fosse accaduto, ma a un certo punto aveva attraversato il limite, aveva consegnato il proprio corpo, e solo ora se ne rendeva conto. Il bosco tornava a essere ciò che era sempre stato: una bocca che si chiudeva sul mondo.
Non aveva bisogno di altro. Non aveva bisogni. Era accaduto da pochissimo, senza che se ne fosse accorta, e non era stato doloroso. O, perlomeno, da quell’altro lato, il dolore non lo ricordava più. Gli alberi che la circondavano erano così alti, e l’aria così opaca e intrisa d’acqua, che non riusciva a scorgerne la fine. Si vide minuscola e felice, come una ballerina in miniatura. Rallentò il respiro e ordinò alle gambe di mantenere un’andatura regolare, di risparmiare energie, perché avrebbe proseguito la corsa in quella zona che le sembrava nuova. Trotto. Silenzio. Un odore vegetale pungente e una sfumatura sessuale le saturarono le narici. Non c’era cielo lì, nessun confine da cui l’acqua potesse cadere.
In quell’ambiente nuovo, tra contorsioni solenni, Nadia fluttuò verso una nuova forma che si delineava sullo sfondo, grottesca, quasi artificiale, e che le ricordò una scultura. Fianco a fianco, due sicomori imponenti, dai tronchi spessi e pietrificati, si ergevano per decine di metri prima di piegarsi e urtarsi l’un l’altro. Sembrava che, a metà del cammino della vita, i sicomori fossero entrati in conflitto e avessero deciso di crescere l’uno contro l’altro, come le corna intrecciate di due alci. I rami contrapposti, le foglie invadenti, il legno dell’uno che si confondeva con quello dell’altro, facevano dei due gemelli una creatura mostruosa che sanciva la fine e tuttavia lasciava intravedere qualcosa di radioso: la possibilità della continuità o dell’evoluzione. Nadia pensò che nel bosco l’evoluzione fosse una cosa talmente quotidiana – fuggire, invadere, ingozzarsi in un ciclo interminabile – da passare per lo più inosservata. Avvertì un ultimo tremore della coscienza e allora, già un’altra, si lanciò nel nucleo rossastro che, sotto l’acqua e la terra, riuniva le radici dei sicomori. Il bosco era un punto, un’idea, un lago compresso in un atomo, il seme primigenio in cui la carne si fondeva per poi germinare e ricomporsi. Rimase immobile uno o due istanti, cercando di elaborare quella nuova realtà molteplice e infinitesimale, come se tutti gli occhi della creazione fossero puntati su di lei.
Addio, addio, mormorò mentre riprendeva il movimento, prima lentamente e poi sempre più decisa, finché si accorse che stava di nuovo correndo. Non aveva più bisogno di nulla. Non le mancava più il suo appartamento con i pavimenti di legno plastificato, dove di notte le ombre si allungavano e si abbracciavano. Tutto era come doveva essere: il bosco, la tempesta, i suoi passi. Com’era strana, la morte. Si scostò una ciocca di capelli incollata alla guancia e proseguì la sua corsa, diretta verso una massa di pini dai rami frondosi, sfumati come un orizzonte, agitati dal vento.

Testo Sebastián Antezana
Illustrazioni Bernardo Anichini
Traduzione dallo spagnolo Giovanna Maria Bianco

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