federico romiti

Un giorno del secolo quindicesimo un dotto filosofo mandò una lettera a un dotto eloquente. Voleva parlare con lui a proposito di un argomento che gli stava molto a cuore: la verità.
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Ogni giorno, dalla fine di maggio all’inizio di agosto, nel tardo pomeriggio, i cervi volanti sciamano. Escono per mangiare e accoppiarsi: volano alla ricerca del partner, scelgono un posticino appartato – sotto le foglie, sul ramo di un albero, in un cespuglio – e assecondano la natura. Mio fratello, che è entomologo, li cattura; io, che non sono niente, lo aiuto.
Tutto quello che so sugli insetti me l’ha insegnato lui. A parte una cosa: che gli insetti si chiamano così perché sono divisi in sezioni. Infatti, in latino, sectum vuol dire “sezione”. Per la precisione: in tre sezioni; per la completezza: capo, torace, addome.
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Il filosofo sosteneva che la verità andasse cercata nella filosofia; l’eloquente gli rispondeva che no, si sbagliava: la verità si trovava certamente nell’eloquenza.
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Svoltiamo a sinistra e imbocchiamo il sentiero sterrato; mio fratello spegne la musica – Frank Zappa, The Gumbo Variations – abbassa i finestrini, mette in folle. La macchina va avanti lentamente, in silenzio; si ferma alla fine del sentiero, dove si apre il campo incolto perimetrato dal bosco.
Ormai abbiamo le nostre zone: lui costeggia il bosco; io vado a uno degli angoli, in uno spiazzo con dei cespugli. Teniamo sempre d’occhio, alle nostre spalle, il cielo sopra il campo.
Sto fermo e ascolto: i cervi volanti fanno rumore. Quando camminano fanno scricchiolare le foglie, spostano i ramoscelli; fanno vibrare le ali quando volano e quando si preparano a farlo.
Oltre i cespugli si vede la valle, oltre la valle c’è la collina; il sole comincia a tramontare dietro il borgo medievale: eleggo con l’orecchio i piccoli rumori. Ogni tanto un pipistrello attraversa il cielo, una lepre il campo. Io e mio fratello ci voltiamo per guardarli; li ignoriamo.
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Già in quel secolo era una disputa molto antica: forma o contenuto?
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“Eccolo!”, urla mio fratello.
“Dove?”, urlo.
“Non lo vedo più, viene verso di te”, urla.
Vado verso il campo, guardo in alto e vedo il cervo volante a mezz’aria. Ondeggia; ha le dimensioni di una pallina da ping pong. Alzo il retino e lui ci si impiglia con le ali ancora aperte. Sono gialle, diafane; delicate come le cose da proteggere.
“Preso?”, urla mio fratello.
Infilo la mano nel retino. Le zampe si incastrano tra le maglie strette: ogni volta ho paura di spezzarle. Mio fratello sta correndo verso di me. Ha l’altro retino, quello buono, lungo tre metri.
“Sì – urlo – uno a zero”.
“Maschio o femmina?”, urla.
“Maschio.”
Mi ha insegnato a distinguerli e ho imparato perché è semplice: il maschio ha le mandibole più grandi: per difendersi, per combattere, per tener ferma la femmi- na durante l’accoppiamento.
“Non riesco a toglie…”
Frrrrr.
“Shhh”, dice mio fratello.
Uno di fianco all’altro guardiamo il cielo, concentrati, un punto alla volta. Ho anche paura di farmi mordere. Non è per la paura del dolore – la presa del cervo volante è forte, e lascia due punti scuri nel luogo del morso.
“Eccolo là”, dice, e inizia a correre.
L’ho provato – quando ho deciso di farlo, di non avere paura – perché non è un dolore temibile.
È una questione di rispetto: le mandibole sono le sue armi, e le armi vanno sempre temute. Torna da me con il cervo volante in mano.
“Una femmina – dice, dice – Aò, ce l’hai fatta?”.
Le zampe terminano in piccoli uncini: aggrappandosi alla pelle del dito lasciano la scia bianca dei graffi leggeri. Infila la mano libera nel mio retino e stacca il cervo impigliato come se non fosse cosa viva. Non sembra vivo, irrigidito nella sua presa: lo tiene per il torace, stretto fra indice e pollice. Il cervo ha ripiegato le ali, le ha sistemate sotto le elitre: rimane immobile.
“Anvedi che tanatosi”, dico.
Mio fratello avvicina le mani con i due insetti per guardarli insieme. Cominciano a muovere le zampe nell’aria, alla ricerca di un appiglio. Le elitre sono ali sclerificate: un tempo avevano la funzione del volo, ora lo proteggono.
“Belli grossi, eh – dice – andiamo a metterli nelle quadrotte”.

massimo cotugno 1

Le quadrotte sono contenitori di plastica opaca e stanno nel sacco buttato per terra, vicino a una torcia e a un pennarello. Guardo l’ora sul cellulare: diciannove e trentatré. Mi accovaccio, svito il tappo della quadrotta e tendo il braccio in alto, verso mio fratello in piedi a fianco a me.
Dà un ultimo sguardo al maschio e poi lo butta nella quadrotta; la riavvito, e col pennarello ci scrivo «M 19:33». Svito l’altra quadrotta, lui ci butta la femmina e dice “a questa metti due minuti dopo”. Riavvito e scrivo «F 19:35».
Mi giro una sigaretta mentre mio fratello si avvia verso il bosco; rimango seduto e guardo il campo davanti a me. Il muso della macchina copre l’imbocco del sentiero; il cielo è attraversato dai cavi paralleli dei tralicci.
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Il dotto filosofo e il dotto eloquente si scambiarono molte lettere, trovandosi alle volte in accordo e altre volte in disaccordo, sostenendo talvolta l’uno le tesi dell’altro e talvolta l’altro quelle dell’uno, adoperando talvolta l’uno le armi dell’altro e l’altro quelle dell’uno. Disorientando insomma molto il lettore, che alla fine non capiva più se la verità andasse cercata nella forma o si trovasse, invece, nel contenuto.
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Le quadrotte, penso. Le quadrotte: le quadrotte le quadrotte, le quadrotte sono rotte | le quadrotte non è vero, le quadrotte sono intere.
Urlo: “Ma perché si chiamano quadrotte?”
“Zitto! – urla mio fratello, con l’orecchio accostato alle piante – non lo so, si chiamano così. Vai a cercare anche tu.”
“Sto cercando”, urlo io.
Ricomincio a scandagliare il cielo, ormai scuro. La luna – uno spicchio appeso al cavo del traliccio – è più luminosa. I cervi volanti raschiano la plastica; provano ad arrampicarsi dentro le quadrotte.
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In una delle sue lettere, il dotto filosofo scrisse una frase molto precisa, e cioè che la filosofia, e quindi la verità che le appartiene, stat puncto insectili, et individuo. Quello che voleva dire il filosofo, qualunque cosa volesse dire, era che la verità si trova nel punto, unico e indivisibile. Insectili, infatti, indica anche ciò che non si può dividere in sezioni.
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Mio fratello torna con un cervo volante in mano. Ho acceso la torcia e illumino il terreno davanti ai suoi piedi.
“Smettiamo?”, chiedo.
“Cinque a quattro…”, dice lui.
Me lo passa e lo metto in una quadrotta: «F 8:25».
Infila una mano nel retino, sorride: “…e cinque pari – dice – si stavano accoppiando”.
“Be’, ma così non vale – protesto – a parte la tua indelicatezza, dico. In questo caso vale uno”.
Metto il maschio nella stessa quadrotta della femmina; aggiungo la M di fianco alla F.
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Per conto suo, il punto è un’entità adimensionale, senza lunghezza, area o volume.

 

massimo cotugno 2

 

Testo Luca Romiti
Illustrazioni Federico Romiti & Massimo Cotugno

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