“La prima cosa è il mio nome”
Fernando Parrado

La prima cosa è il mio nome, la seconda il rumore sottile delle Ande, quando l’incidente ci ha restituito l’aereo amputato dallo scontro con la Natura fino ad allora benevola, vomitandoci fuori dalla fusoliera di uno strumento ormai inutile al volo perché privo di ali, un Icaro le cui ali non si sono sciolte bensì sono state spezzate dalle montagne che volevano impedirne il viaggio, lavandosi via il nostro puzzo d’uomini, lasciati a marcire in una congerie di corpi, che si mescolavano uno nell’altro, di notte, nudi, vivi e morti vivi, per trasmettersi il calore senza essere amanti e difendersi da quell’assaggio d’inferno dov’era scomparso tutto, tranne noi, le macerie umane che restiamo, già cadaveri perché funestati dalle ferite, dalle cancrene, mentre affrontiamo la malattia che c’inghiotte per rivomitarci cadaveri e ci lascia con una vita storpiata, perché è venuto il momento in cui la nostra sofferenza non sfama più la vendetta della Natura sull’Uomo e Lei ne pretende l’orrendo spettacolo.

La prima cosa è il mio nome, la seconda il rumore sottile delle Ande, la terza un pensiero: sto per morire, non morirò – la neve mi arriva alle ginocchia ormai congelate – per morire non morirò – l’odore della paura, nel gelo – sto per morire – la neve tutt’intorno, non bisogna pensare, dov’è il Cile? – non morirò, è già morta Susana, dopo otto giorni di sofferenza, abbozzolata su se stessa, ridotta a un cencio disfatto dalla cancrena, quando ho detto agli altri “Per sopravvivere, nutritevi di lei”, nonostante quando fosse nata, dieci anni dopo di me, prima della sua nascita non credevo che avrei provato per qualcuno un amore più grande di quello riservato a me stesso.

La prima cosa è il mio nome, la seconda il rumore sottile delle Ande, la terza un pensiero, la quarta il ricordo del giorno della partenza, quando – dopo aver sperato invano che qualcuno ci salvasse (ognuno di noi ci aveva pensato ogni giorno, mattino, pomeriggio e sera; lo aveva sognato e ogni sogno era un sogno di libertà) finché non abbiamo sentito alla radio che le nostre ricerche erano state abbandonate – io, Roberto e Antonio, in quell’alba stenta e freddissima, abbiamo detto agli altri che saremmo andati a cercare aiuto – queste e altre parole abbiamo annunciato in un discorso a fiumana per non cambiare idea, parole appena pausate dal pianto dei nostri compagni che lasciavamo, che facevano una diaspora attorno al nostro coraggio, lasciando intorno a noi uno spazio doloroso – dopo aver messo in spalla il poco cibo che ci restava, un sacco a pelo per proteggerci dal freddo accusatorio dei monti e dalla preoccupazione dei compagni, che ci guardavano di speranza, con gli occhi pieni di lacrime che non scendevano giù e li costringevano a vederci a bagnomaria, guardando mentre ci allontanavamo sempre di più, fino a diventare puntini non più grandi di una capocchia di spillo: così Marcelo, il nostro capitano, aspirante medico, ridotto a razionatore del cibo (un tappetto di vino e poca marmellata per pranzo e un quadratino di cioccolata per cena); così Gustavo, che cercava di guarirci con le poche risorse rimaste, anche se nessuno di loro si è accorto che io ero vivo, e sono rimasto all’addiaccio, la prima notte, poco fuori dal loro rifugio di valigie nel culo dell’aereo, quando la neve mi rubava l’anima, ma poi ce l’ho fatta a raggiungere la fusoliera che faceva da giaciglio ai miei compagni e così ho ritrovato Susana, le cui labbra, vedevo con orrore, cominciavano a ritrarsi sui denti, tanto che, anche dopo averle applicato impacchi e cataplasmi sulla pelle devastata, assicurandomi che mangiasse, l’ho vista prima deperire e poi morire, così ci accucciavamo insieme, io appena vivo, lei appena morta.
E così è cominciato il nostro viaggio, uguale a se stesso ogni giorno, da quando il sole sorgeva a quando, lontano, tramontava, e le alte creste scoscese delle Ande e le loro ombre si accendevano di un vivo color corallo, come se si tingessero, preveggenti il nostro futuro, dei riflessi del sangue. La catena montuosa, folta di alberi e arbusti, sorgeva da lontano, come una dura gengiva di marmo verde, che il sole morente feriva obliquo dall’opposto orizzonte con i suoi raggi stanchi.
Simili a immense ossa antiche, ora scarnite e levigate dalla pioggia e dal vento, ora appuntite a trafiggere l’aria, stavano quei monti, alla mattina illuminandosi di una rosea luce, come se l’intenzione dei loro lombi trasparisse fuori della dura crosta, finché la luna rompeva quel rossore, levandosi chiara ed estatica, meravigliosamente remota, nell’azzurro abisso della sera. E, forse per quella magica trasparenza lunare o per la fredda crudeltà di quell’astratto, spettrale paesaggio, una delicata e labile tristezza era nell’aria, quasi il sospetto di una morte felice, perché i colori del paesaggio – verde e turchino – rallegravano i nostri pensieri.

il rumore sottile delle ande 1

La prima cosa è il mio nome, la seconda il rumore sottile delle Ande, la terza un pensiero, la quarta il ricordo del giorno della partenza, la quinta quei corpi, i loro occhi, la loro carne, investita da metallo e ghiaccio e altri corpi, marezzata di sangue che confina col bianco della neve, il limite tra l’esistere e no, perché noi esistiamo grazie a loro, e il mio dio non è il vostro: è la mano di Fito quando smembra i cadaveri, in un gesto che sopravvive in maniera occulta nelle mani di ogni uomo affamato, ma è allo stremo del resistere a quello squartamento innaturale perché sbrana i suoi simili, in qualche caso i suoi parenti e, forse per la neve che gli cade sopra, sembra invecchiato repentinamente con quei capelli che si sono fatti canuti: è ubriaco di paura e stanchezza – dell’animo e del corpo – sopraffatto in ogni lineamento, eppure continua per noi; è la forza d’animo di suo cugino Eduardo quando mette a seccare al sole i pezzi; è la mano di Gustavo che cerca di guarire le nostre fratture; è la cura con cui Antonio gira i cadaveri nella neve, così che chi si nutre di loro possa vivere ancora un poco non sapendo per merito di chi.

La prima cosa è il mio nome, la seconda il rumore sottile delle Ande, la terza un pensiero, la quarta il ricordo del giorno della partenza, la quinta quei corpi, la sesta l’ira della Natura, un’immagine imbiancata e degenerata del tutto, la cui soluzione è spezzata solo da pochi interventi della terra: qui gli estranei siamo noi, non si può vivere, qui, e la Natura ce lo ricorda continuamente, specie durante le notti stellate, riaffermando il Suo ruolo, su di noi dominante, dicendoci che c’è posto solo per Lei, è una Natura che non ci vuole, bellissima, ma ostile. Ci avvolge nel suo labirinto, un groviglio di intestini che ci crocifigge ai tronchi degli alberi, le braccia aperte in croce, i piedi congiunti, fissati agli stessi tronchi dai lunghi chiodi degli arbusti, simili a fili di ferro attorti intorno alle nostre caviglie. Alcuni di noi hanno la testa abbandonata sulla spalla, altri sul petto, altri alzano il viso a guardare la luna nascente. Siamo quasi nudi, e la nostra carne splende castamente nella fredda luce della luna.
La prima cosa è il mio nome, la seconda il rumore sottile delle Ande, la terza un pensiero, la quarta il ricordo del giorno della partenza, la quinta quei corpi, la sesta l’ira della Natura, l’ultima la rassegnazione dell’abbandono. Che succede quando il mondo ti lascia dove sei, senza venire a cercarti? E il chiarore scialbo delle stelle, al di là dei monti, dal fondo sconfinato della terra sorge nel cielo, si spande – ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai morti viventi come noi si nega il ritorno, siamo figli dell’abdicazione di altri per parte nostra, pazienza.
È mai questa l’esistenza, una vita che prende forma, il suo freddarsi, il trapassare a poco a poco nella liturgia della rinuncia altrui mentre ci si sente esistere ancora? È canto, movimento, entrata, è coro per liberare pena gioia furia rimorso, mostrarli nel suo più bel profilo, nella sua più bella struttura?

il rumore delle ande 2

Impantanati e appiedati, poveri passeggeri perduti in questo panorama tormentato, che subisce il disgelo, ma è ancora acre e colmo di amarezza e rancore per il troppo freddo, avanziamo scansando pietre, come relitti galleggianti e intorpiditi, con la coscienza che a poco a poco sembra abbandonarci per essere rimpiazzata – dopo averci scorto al di là del fiume agonizzante nei gargarismi propri dell’arrivo dell’estate – dalla paura.
Uno strano silenzio gravava sulla città affamata che troviamo e attraversiamo, madida dell’acre sudore della fame e già dal remoto ciglio dell’orizzonte si leva pallida e trasparente la luna, uguale a un fiore bianco, e il cielo odora finalmente di giardino, non più di sola neve. Dalla soglia dei tuguri di quelle campagne, la gente alza il viso a guardare quel fiore ricamato nella coperta di seta azzurra del cielo.
Troviamo un torrente, sulle cui acque si specchia l’ombra dei sempreverdi, che paiono finti, nati dalla fantasia di un artista, una possibile illustrazione per l’Inferno dantesco. I rami più bassi strisciano e si contorcono terra terra, rami che, per quanto tentino, non ce la fanno a ergersi che a un certo punto del loro avanzare ci ripensano e decidono di tornare indietro verso il tronco facendo una curva netta o, in certi casi, un vero e proprio nodo. Poco dopo, però, cambiano ancora idea e ritornano indietro, come spaventati alla vista del tronco potente, arrugato dagli anni. E, nel tornare indietro, i rami seguono una direzione diversa dalla precedente. Sono in tutto simili a serpenti di colpo cristallizzati in un’eternità di tragica fuga impossibile.
“Avete paura di me?”, dico a chi ci guarda dall’altra sponda mentre noi cerchiamo di attraversare il fiume: dall’altro lato c’è la salvezza.

il rumore delle ande 3

Testo Chiara Scipioni
Illustrazioni Liliana Sanna

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