La folla (freddamente):
Perché distogli lo sguardo?
ti chiediamo.
Ci accalchiamo nella piazza; affolliamo i tetti e i poggioli e le finestre; ci arrampichiamo sui pali che reggono gli stendardi e le lanterne; ci carichiamo i figli sulle spalle (le piccole mani stellate sulle nostre tempie, tra i nostri capelli): hanno tredici, quattordici mesi; all’epoca erano in fasce, non sanno nulla della nostra grande paura.
Affacciati, dunque, e saluta il tuo popolo. Dal palco le nostre facce devono essere piccole come monete (siamo i soldi che hai messo sul tavolo, la tua scommessa contro la principessa); quando ci prostriamo cantando (diecimila anni al nostro imperatore), siamo fette di carne (siamo
la tua carne): puoi farci a pezzi, cuocerci nel grasso d’anatra, farci galleggiare nel brodo (occhi di grasso giallo, occhi bianchi di sudditi).
Anche se non sei mai stato uno di noi (davvero pensavi di ingannarci, quando portavi le tue vesti da straccione come un hanfu intessuto d’oro?), sei stato insieme a noi. Abbiamo mangiato spalla a spalla, ci siamo spintonati per le vie affollate, abbiamo respirato gli stessi odori (la
cenere, il vapore del riso, le latrine, il sangue sul ceppo). Insieme abbiamo gridato: Pietà!
E dunque
Perché distogli lo sguardo?
ti chiediamo.
Sì, abbiamo strattonato il tuo vecchio, ma così è la folla (un grande corpo, una folle volontà); siamo il tuo animale sanguinoso e volubile, pensiamo solo a vivere e a mangiare, ogni istante è diverso dall’altro, invochiamo la luna-boia e poi ci commuoviamo per il fanciullo di Persia (quasi un bambino, ma abbastanza uomo per volere la principessa nel proprio letto).
Noi (noi, tu, la principessa) siamo questo.
Ma tu non ci vedevi, vedevi solo lei (i suoi seni di giada, il segreto tra le sue gambe).
Hai mai pensato a noi?
Ti abbiamo sentito cantare. Ti abbiamo visto esultare al fiume bianco delle stelle, e non rivolgere neppure uno sguardo a noi, i tuoi futuri sudditi intrappolati come ratti nella città bassa (nella fogna) – e di certo non ci hai ascoltato mentre piangevamo e gridavamo di paura, quando le guardie sfondavano le porte e ci chiedevano il tuo nome (il nome, il nome, il nome).
Sì, abbiamo consegnato il tuo vecchio e la fanciulla, ma così è la folla (così siamo tutti).
Abbiamo soltanto ricambiato il tuo favore (lasciare che la principessa emettesse la nostra condanna a morte: un’intera città mandata al macello per il suo bel faccino).
A volte abbiamo pensato (ah, i sogni selvaggi della folla) che avremmo preferito essere passati tutti a fil di spada per farti regnare su un mattatoio (il silenzio rotto solo dai corvi), per farti comprendere la durezza della tua sposa.
Volevamo ripagarti con la tua stessa moneta, ma ha pagato solo la tua povera schiava (ora però ha un mausoleo nella città bassa, accendiamo lanterne per lei, la rispettiamo e la veneriamo più di te).
Ma ora ci (ti) conosciamo. Siamo i tuoi sudditi, i tuoi spettri mancati, centinaia di facce che ti guardano solo grazie alla tua schiava (beata, beata, beata); per avere la principessa, tu ci avresti lasciato morire e noi lo capiamo (noi senza pietà che incitavamo il boia per vedere il
sangue dei principi).
Ma tu, forse, non ti conoscevi abbastanza? Per questo non reggi il senso di colpa? Per questo trasecoli della tua stessa crudeltà?
Le ombre dei morti (sussurrando):
Perché non dormi?
ti chiediamo.
Usciamo dal manto della notte, ci accomodiamo nelle macchie impalpabili con cui la luna entra nella tua (sua) camera da letto, siamo in molti appollaiati sulle travi, lottiamo tra noi (morsi e unghiate nel nostro furibondo silenzio) per acciambellarci sul tuo (suo) letto. Per il privilegio di soffrire da vicino. Appoggiamo la guancia insanguinata sui fili d’argento della trapunta. A volte il suo respiro ci solleva come un’onda e ci trema il cuore. Sanguiniamo il nostro sangue (latte o madreperla), il nostro balsamo che vi scalda e vi rinfresca.
Scuoteremmo il Cielo e l’Inferno per prendere il tuo posto, per riavere mani e labbra e pelle in grado di toccarla. Invece abbiamo soltanto i nostri occhi enormi e indiscreti, con cui ti guardiamo spogliarla (magnolia denudata).
E dunque
Perché non dormi?
ti chiediamo.
E ora dove vai?
ti chiediamo.
Ti metti a sedere, hai capelli neri, lunghi e arruffati (noi li invidiamo e li amiamo, perché lei li tocca quando voi fate l’amore), ti prendi la testa tra le mani e ti alzi. Vai verso la porta e noi sciamiamo dietro di te (siamo una moltitudine).
Tu cammini lungo i padiglioni, sulle passerelle serpeggianti, noi danziamo su ogni increspatura d’acqua, sul dorso di un pesce che si inarca prima di ritornare alle profondità del lago. Hai ancora il passo di un soldato, il tuo piede fa tremare le assi, emana un ordine che non
sappiamo decifrare, ma siamo curiosi di capire.
Perché non dormi?
ti chiediamo.
Eppure hai dormito in luoghi peggiori. Li elenchiamo con pazienza: rannicchiato come un orso in una buca del terreno, mentre le stelle lucevano tra i rami dell’osmanto; per strada, tra gli accattoni che morivano avvelenati dal vino di riso e le prostitute che si grattavano le cosce
ricoperte di croste (come sono dolci, ora, questi ricordi che ci disgustavano in vita); ai piedi della forca (il ceppo del boia impregnato dal nostro sangue vivo, rosso e caldo).
Non hai dormito, invece, nella stanzetta sorvegliata dalle guardie imperiali in cui attendevi il tuo destino (la morte o l’amore) – ma chi avrebbe dormito, quella notte? Dappertutto le pattuglie e i banditori, le lanterne rosse appese a ogni porta, la città vuota, come già morta, e tu, nemico di tutti.
Oh.
Forse capiamo: quella notte ha cambiato tutto (ha sporcato la tua coscienza).
Ti balziamo davanti (un unico, glorioso raggio di luna), ma tu ci attraversi, le nostre mani non ti fermano. Eppure ci ascoltavi, un tempo (prima che lei si arrendesse a te): il nostro amore ti riempiva di gelosia, ti avvelenava il sangue. Allora ci udivi, e avresti fatto di tutto per zittirci.
Forse ora dubiti della nostra presenza, ma siamo sempre con te: come potremmo abbandonare il nostro amore?
(Mai, mai, mai!, gridiamo dai nostri colli gorgoglianti, dalle nostre vene mozzate, sputacchiamo una saliva trasparente che domattina sarà rugiada.)
Riprendi pure a camminare. Noi ti seguiremo.
Il Principe ignoto (a sé stesso):
Dove sei?
ti chiedi.
Ti cerchi dappertutto (negli specchi d’argento, nell’acqua, negli occhi dei mandarini, nei gioielli che adornano il viso e la gola della tua sposa) e non ti riconosci.
In piazza, stamattina, ti sei cercato nel popolo accorso ad acclamarti (che brividi: una preghiera di salute, di vita, di fortuna gridata da diecimila gole), ma ciò che hai visto, ciò che hai letto nelle loro facce (nostro spietato imperatore, ci hai tenuto il pugnale alla gola: quanto ci somigli! Ami il sangue come noi!) non ti è piaciuto.
Sei rientrato nel Palazzo (dove tutto era rosso e odoroso, come nel ventre di un animale) aggrondato, precipitato nel silenzio. Hai levato lo sguardo al dragone accoccolato al centro del soffitto (sorrideva, ti scherniva con i suoi denti, con i suoi artigli d’oro). La tua sposa (principessa di perla e giada) ha posato la mano sul tuo polso, ti ha chiesto cosa ti accadesse, ti ha chiamato Amore e Sposo adorato – e dunque tu le hai aperto il cuore, hai confessato il tuo tormento per la folla che ti ha appiccicato addosso la nomea di Sanguinario, e lei ti ha guardato con dolce perplessità, prima di sorridere spietata (principessa d’acciaio).
Lascia che parlino
ti ha detto.
Loro non capiscono che queste crudeltà sono necessarie
ti ha detto.
Forse hai fatto una smorfia (forse sei sbiancato, hai provato una fitta al cuore). Alle sue spalle, le ancelle (vestite di rosso e verde, glicine velenoso tra i capelli) hanno sorriso, nascondendo le bocche con le maniche, e si sono guardate; nelle loro espressioni hai letto lo stupore: La conosce così poco! Chi crede di aver sposato?
Ti sei voltato verso il Gran Cancelliere (un uomo intelligente), ma nel suo sguardo hai visto soltanto il nuovo imperatore (un uomo più duro della principessa, un uomo furbo e inflessibile).
Ora, insonne e malinconico, attraversi un raggio di luna che vibra come una corda di qin (dentro: mani gelide, flebili canti di grilli) e ti affacci sul lago di china blu. La tua faccia ti aspetta laggiù, tra le onde.
Dove sei?
ti chiedi.
Riesci a spingere il tuo stesso nome (desiderato, invocato, maledetto, cercato come l’oro in una vena pura della terra) fin sulle labbra, ma un veleno d’oleandro ti annoda la punta della lingua, costringendoti al silenzio.
La luna, che t’inseguiva, ti avvolge di nuovo nel suo abbraccio lattiginoso.
Il principe dei Tartari adesso è imperatore della Cina. E il figlio del vecchio re ora è l’orfano di un padre morto di crepacuore. E il ragazzo che sorrideva a quella giovane schiava …ti dice.
(Noi siamo le ombre dei morti, i principi sgozzati, le creature troppo gentili per conquistare il cuore della principessa.)
Rabbrividisci, scuoti la testa, guardi disperato le montagne aguzze che incoronano il lago.
(Adesso anche tu conosci il prezzo del suo amore: i suoi tre enigmi non sono mai stati sufficienti – occorrevano le lacrime, e il sangue… occorreva un sacrificio.)
La luna splende in mezzo al cielo. Lassù, tra le nubi sfilacciate, riposa la fanciulla (la tua povera schiava). Ma quaggiù, nel riflesso morto tra le onde, giace Calaf, l’uomo che l’avrebbe risparmiata. Che l’avrebbe salvata.
Testo Sonia Aggio
Illustrazione Gabriele Merlino