Nulla in lei aveva più a che fare con il passato. Era scesa a una fermata più lontana del solito. Aveva attraversato la piccola piazza e aveva imboccato la via senza affrettarsi. Era stata una giornata serena, aveva concluso le ultime cose in ufficio, poi aveva chiamato sua madre raccontandole due o tre novità trascurabili e la linea era caduta mentre si salutavano.
La via era sfolgorante. Camminavano quasi tutti tenendosi vicini. Nora aveva ascoltato i frammenti di discorsi come allusioni, e il movimento generale era di quello di un brulicare, ma più lento e sazio, e i visi erano tutti nobili, più nobili del solito, pareva, lustrati dall’evidente benevolenza che gli veniva dalla città, e c’era un’allegria rossa come una mela coperta di zucchero, e sugli uomini e sulle donne della via, dall’alto dei palazzi grigi, cadeva una convinzione incrollabile nei giorni a venire.
Nora viveva nella città da cinque anni. Si sentiva a suo agio. La città aveva sempre offerto la sua protezione ai beniamini, la città era generosa e amava la fortuna e il talento, ma soprattutto il talento, il talento sopra ogni cosa, che era la capacità di riconoscere la propria ovvia direzione, e poi disporre la vita in quella direzione, piegandola, convolvendola attorno ai chiodi sapientemente posizionati dal talento, il talento che li teneva tutti inchiodati sulle porte della città.
Si era fermata davanti a una vetrina di anticaglie. Sul basso tavolino all’ingresso, coperto con un panno di raso blu, un mortaio in pietra nera era posato accanto a un portafrutta di vetro con un’incrinatura lungo lo stelo, che i riflessi lividi del tessuto rendevano sporco. Più all’interno, nell’angolo a destra, pendevano vestiti che avevano trattenuto le forme da corpi già trascorsi, alcuni gioielli appariscenti stavano raggruppati in una teca come farfalle morte, e tutto aveva una dimensione già perduta, tutto era già così evidentemente portato a termine e concluso che quella non era una seconda vita, ma una riesumazione, e a Nora era sembrata l’esposizione di un corredo di un morto, di una collezione di morti.
Aveva ripreso a camminare. Più avanti, l’aveva visto in lontananza, c’era il disegnatore che esponeva le caricature clownesche con le teste inflate. Si sentiva profumo di caldarroste e zucchero filato, e le bancarelle illuminate, e in sottofondo un saxofonista con la base registrata ammiccava ora a un genere ora a un altro, c’erano dei buoni sentimenti e l’alta guglia del campanile che svettava alla fine della via – la via là si sarebbe aperta con uno sfiato nella piazza grande, e lo spazio iniziava dalla cattedrale, quieta, bianca ma appena illuminata dai resti blu del sole, le campane avrebbero rintoccato in un certo momento e il suono avrebbe sommerso la piazza, imbevendo le vie, la piazza lastricata di marmo e sopra un cielo duro e inerte, dalla piazza Nora avrebbe girato a sinistra e percorrendo alcune vie silenziose, spesso vuote, sarebbe arrivata a casa, avrebbe acceso tutte le luci e nello sfolgorio la malinconia si sarebbe consumata.
Ma al di sotto, e Nora sentiva l’ascesso premere, sotto l’apparenza e il candore, il pulito, calcolato procedere delle cose, sotto al banchetto riccamente imbandito, stracolmo di belle offerte, trionfavano i vermi, ed era un trionfo annunciato, era l’abisso e all’abisso aspiravano tutte le prospettive, verso quale più verde pascolo correva così veloce il branco già soddisfatto?
Presto avrebbe compiuto trent’anni e il suo cervello, il suo bel testimone alieno, si sarebbe scoperchiato, si sarebbe finalmente aperto a metà, la polpa molle troppo matura, pieno di succhi e di migliori intenzioni.
Da dove arrivava il futuro? Il futuro immaginato era già trascorso, si era già dissolto come previsto e ora mancava, mancava il frutto futuro della sua immaginazione, l’immaginazione non riusciva a sostenere in alcun modo il futuro che restava a guardarla con occhi ciechi di statua.
Nora vedeva i genitori invecchiare, e in questo invecchiare c’era già il bacio in fronte caldo e umido della morte. Gli amici sposati, i figli, il lavoro. La circolarità della vita avrebbe dovuto rassicurarla? Questo faceva alla vita l’esperienza? Ancora una volta, un’altra esperienza di vita, avrebbero detto (ma a chi, poi?), gli amici di sempre, seduti allo stesso tavolo, offrendo il bel viso stanco all’esperienza, a scopo didattico, generosi, più generosi che mai e maturi, finalmente maturi al punto giusto, dando infine un senso alle sconfitte che non avrebbero mai pensato di subire, che in altre età non avrebbero mai tollerato di subire e che ora amavano senza riserve.
E anche lei, accodata al tavolo per età e aspettative, li avrebbe osservati invecchiare e, scorrendo anche per lei il lungo risvolto indementito del tempo, avrebbe finalmente capito da che parte sarebbe arrivato il fallimento definitivo, quello che non avrebbe voluto evitare, che avrebbe accolto a braccia aperte e che le avrebbe finalmente insegnato la perdita e il rischio dell’errore, anzi, l’irrimediabile certezza dell’errore, che da sempre appestava la creazione, che tendeva anch’esso alla perfetta conclusione, e che nonostante tutti i migliori sforzi non era ancora stato escluso dalle possibilità umane.
Aveva continuato a camminare in quell’artificio di serenità, lungo la quiete fredda dei portici dai quali colava la sera. Tutto intorno la folla vociava. Nora aveva cercato di evitarla. Aveva camminato rapida, scansandosi, ma la folla era allegra e impietosa e piena di potenzialità, la folla non aveva alcuna compassione e non offriva ripari.
Esisteva il cambiamento? O il movimento era solo apparente, e quello che sfrigolava in lei, le sue mille piccole morti, era la nostalgia di uno zenit, l’irraggiungibile miraggio d’oro e la sua più bella trappola, che da lassù gettava ombra su tutta la vita già meritata. E nonostante i suoi lanci più alti, il bianco sassolino lanciato oltre l’ostacolo, più in alto di se stessa, avrebbe forse dovuto ricordarsi che il luogo di arrivo poteva apparire altrettanto vuoto del luogo di partenza, e che solo guardandosi indietro, lo sbalzato via avrebbe potuto scoprire se erano stati poveri e lenti i passi, e la corsa inconcludente e arrivato infine alla meta, alla fata morgana, avrebbe forse capito come era facile rifiutare finalmente quel gioco.
Aveva percorso quasi tutta la via, senza guardare altro e solo alla fine si era fermata. Il sax aveva un suono vellutato, I Get Along Without You Very Well (Except Sometimes). Accanto a lei una coppia più giovane e una madre che rassicurava il figlio, non c’era motivo di aver paura a chiedere una canzone, che canzone voleva, non c’era motivo di avere paura. La folla ora non rumoreggiava. Il campanile era vicino abbastanza. La via era più quieta, già sufficiente la caduta e più alta del dolore, sempre più vaga, la sera lasciava entrare nel passato un altro giorno di dicembre della città.
Testo Isidora Tesic
Illustrazione Martina Venturini